Martha Hunt (Tilda Swinton), corrispondente di guerra con una vita senza radici e sessualmente promiscua, è malata di tumore a New York. Va a trovarla Ingrid, scrittrice di un certo successo, e amica che da tempo non la vedeva. Quando Martha scopre che le terapie non hanno effetto chiede a Ingrid di stare vicino a lei alcuni giorni in una lussuosa villa fuori città. Si suiciderà, ma vuole qualcuno accanto, e quando nella stanza accanto Ingrid troverà la porta chiusa, vorrà dire che Martha avrà compiuto il suo proposito.
Nelle dichiarazioni in occasione della consegna del Leone d’Oro a Venezia, Almodóvar ha direttamente collegato, senza giri di parole, il suo film alla battaglia culturale e politica sull’eutanasia, che in Spagna è stata vinta, almeno al momento, e che lui vorrebbe fosse vinta anche in altri Paesi. La cosa non deve stupire o scandalizzare perché il cinema è sempre stato un mezzo potente per incidere sulla mentalità delle persone, nel bene (quanto ha fatto il cinema americano contro il razzismo…!) o nel male, proponendo, come in questo caso soluzioni semplicistiche e solo apparentemente umane a problemi complessi. Perché tutto sembra facile alla sua protagonista lucidissima, freddissima, pienamente consapevole di sé, che si vuole suicidare (infatti poi una cosa è il suicidio o il diritto al suicidio, un’altra l’eutanasia evocata da Almodóvar nelle interviste, cioè decidere di porre termine alla vita di altre persone malate). E se una persona ha solo un momento di debolezza? Se passa per una fase di depressione e ha quella pillola letale di cui parla Almodóvar malauguratamente sottomano? E se la possibilità del suicidio legale spinge qualcuno un po’ fragile a farlo solo perché non vuole pesare sugli altri, che invece gli vogliono bene?
In teoria questo primo film di Almodóvar girato in lingua inglese dovrebbe commuovere, ma in realtà è molto meno caldo di altri suoi lavori precedenti. Con scenografie e colori accuratissimi, elementi di una confezione patinata e lussuosa, egli offre una storia assai verbosa, piena di dialoghi “telefonati”, e senza vera tensione, che sa troppo di tesi precostituita per coinvolgere davvero… Il personaggio di John Turturro serve poi ad aggiungere alcune lezioncine catastrofiste sulla crisi climatica, aumentando la quota di didascalicità del film.
La stanza accanto non è quindi –come alcuni critici hanno sostenuto- un grande film o un grande capolavoro. Ma (anche se magari lo fosse) è soprattutto e anzitutto un’opera a tesi. E visto che di tesi si tratta, Almodóvar ci ricorda anche en passant alcune sue altre tesi ideologiche, mettendo in scena (in un lungo flashback della giornalista protagonista) due eroici sacerdoti carmelitani che rimangono sotto le bombe in Medio Oriente, che però –ci viene detto- sono omosessuali e sono amanti…Per rimanere in tema, all’inizio, quando la scrittrice Ingrid presenta il suo romanzo, la ragazza che chiede un autografo ci dice che è per la propria fidanzata… E naturalmente il “cattivo” del film, la persona più sgradevole, è un poliziotto “cristiano fondamentalista”.
Insomma tutto quello che ci si poteva aspettare da un film a tesi, e anche di più. Premiato con il Leone d’Oro a Venezia, ma molto molto meno dal pubblico: nonostante le star hollywoodiane e la convinta distribuzione Warner il film si è fermato a circa 2 milioni di incasso in Italia (molto meno che altri film dello stesso regista) e anche in Spagna il pubblico ha risposto molto poco.
Armando Fumagalli
Tag: 2 Stelle, Drammatico, film spagnoli