Anatole «Zsa-zsa» Korda, celebre magnate internazionale, coinvolto (anche) nel traffico d’armi, sopravvive ad un attentato aereo. Giunto probabilmente ai suoi ultimi giorni, Korda sceglie di affidare la sua immensa fortuna alla figlia Liesl, giovane novizia prossima a prendere i voti. Liesl viene così coinvolta in un rocambolesco e potenzialmente letale viaggio, allo scopo di colmare il deficit finanziario – il «Gap» – che impedisce a Korda il controllo delle infrastrutture dell’immaginario Stato di Fenicia.
Il che ne fa un’esperienza insolita, che può risultare incantevole per alcuni, straniante per altri. Uno degli obiettivi delle opere di Anderson è quello di narrare l’atto stesso del narrare, di celebrare la magia del raccontare storie. Di norma, un film nasconde l’artificio della messinscena: Wes Anderson – a volte più, a volte meno – lo mette in evidenza. Rigorose simmetrie, inquadrature frontali come a teatro, fondali scenografici scopertamente fasulli, come su un palcoscenico o in certo, rudimentale, cinema muto; immagini a vario titolo paragonabili alle illustrazioni di un libro. Mondi sospesi tra realtà e fantasia, scenari di avventure non propriamente per ragazzi: semmai, per adulti che custodiscono il ricordo delle storie d’infanzia e di gioventù, che non hanno mai smesso di sognare.
Ma si tratta anche di mondi popolati da personaggi grotteschi, che parlano e agiscono come buffi automi, che esprimono le proprie emozioni in modo quantomai goffo, facendo sembrare comici anche racconti che non sempre lo sono. In tutto questo, La trama fenicia non fa eccezione: tant’è che l’incalzare della sua trama, tra le più serrate che Anderson abbia mai escogitato, può somigliare ad un’inarrestabile sequenza di gag.
Ma è molto di più: la storia tratta nientemeno che di sacro e profano, di divino e demoniaco, in rotta di collisione: il punto di vista sulla storia umana di un losco affarista ricercato in tutto il globo, contro quello di un’aspirante suora profondamente devota. Per giunta, i due sono padre e figlia. Il primo vorrebbe che Liesl continuasse pure a credere in Dio, a patto che quest’ultimo non prenda parola nei suoi affari. L’altra si domanda invece cosa Dio stesso stia cercando di dirle, ora che le ha fatto cadere tra le mani un enorme patrimonio.
Davvero una strana coppia, nel cui complicato rapporto si mette a tema la possibilità o meno di trarre il bene anche dal pervasivo male della storia. Di rimediare ai crimini propri o altrui, di procedere nella tempesta del mondo rimanendo radicati nella verità e nella giustizia, anche quando tutto cospira a scoraggiarle, a delegittimarle, a renderle impraticabili o ininfluenti. Di camminare in mezzo agli altri uomini senza farne il gioco.
Si tratta dunque di capire se ad avere l’ultima parola sulla storia sia il bene oppure il male. E, analogamente ad altre pellicole di Anderson, le eventuali speranze di vittoria del primo sono affidate a candidati improbabili, o perché di sembianze fragili, o perché compromessi a tal punto che nessuno scommetterebbe su di loro. Ma mentre il male fa molto baccano, il bene sboccia nel silenzio: se vince, vince spuntandola.
Alla fine, si tratta di scegliere come si vuole essere tramandati, quale memoria di sé affidare alle storie – da Anderson tanto amate – che parleranno di noi: questa è la vera eredità di Zsa-Zsa Korda, il testamento che si trova a dover scrivere. Difatti il «Gap» (il «divario») che Korda deve decidere se e come colmare non è solo quello finanziario, ma quello tra il male commesso e il proprio destino finale. Nonché quello tra sé e sua figlia, che non conosce per davvero, di cui non ha la fiducia (anzi) e che ha imboccato ben altra strada dalla sua.
La trama fenicia non è dunque, come può sembrare, una storia raccontata per mero gioco. Ma è come se Wes Anderson provasse un tale pudore nel sondare certe profondità, da aver bisogno non solo di ricorrere alla fantasia narrativa, ma di evidenziarne la finzione e, oltretutto, di applicarvi il filtro della farsa. Se il punto a cui intende arrivare ne La trama fenicia è senz’altro chiaro, come lui si senta o speri di farci sentire di fronte alle verità che afferma lo è molto meno.
Sta allo spettatore mettersi in contatto con le profondità di cui sopra: a lui il compito di colmare il gap.
Marco Maderna
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