Dai punti di vista dei diversi personaggi si ripercorrono le ultime 24 ore prima che nella notte fra il 5 e il 6 settembre 2020, a Colleferro, in provincia di Roma, Willy Monteiro Duarte venga colpito a morte in una rissa, scoppiata per futili motivi. Un viaggio attraverso la banalità del male che si annida in quotidianità vuote dove la vita perde il suo significato. Maurizio, Michelle, i gemelli Federico e Lorenzo (nomi di fantasia) trascorrono ore senza una meta, chi giocando pericolosamente con l’automobile di papà, chi facendo consegne di frutta e verdura come copertura per traffici illeciti. Al centro dei loro vissuti la discoteca locale capace di stordire e attutire il male di vivere. Solo Willy quella sera ha osato puntare in alto e ha ottenuto una promozione dallo chef stellato nel ristorante in cui lavora
Tutto il film è un’angosciante denuncia del male che si nasconde dentro le pieghe di esistenze prive di senso, in cui si cerca lo sballo o una pace fittizia. Tutti cercano di relazionarsi con l’altro ma sembrano privi di strumenti per decodificare il disagio. Una ragazza avverte la povertà del rapporto e cerca di interromperlo ma si scontra contro l’ottusità e la volontà di possesso del maschio che non accetta l’allontanamento. I gemelli vivono idolatrando i loro corpi scultorei e soddisfacendo insieme i loro bisogni primari, sesso compreso. Uno di loro aspetta un figlio dalla fidanzata che tradisce ma non pare avere il benché minimo rimorso. L’amico carabiniere mette sull’avviso il padre della ragazza, riguardo ai tratti delinquenziali del suo partner, ma quest’ultimo, pavido professore di filosofia, non ha il coraggio di intervenire. Anche nelle famiglie ovunque si guardi dilaga la negatività, tranne in casa di Willy dove è felice il suo rapporto con la madre e la sorella. Eppure questo spiraglio di luce non pare bastare, anzi sarà proprio questo a venire soffocato nel sangue in quei quaranta secondi di furia cieca e brutale.
L’abilità del regista sta nel creare un intreccio avvincente senza che ci si immedesimi nei personaggi. Essi – a parte Willy – sono e restano negativi, ma noi li seguiamo lo stesso perché abbiamo bisogno di sapere che fine faranno. Nessuno in fondo è un reale protagonista, ma tutti partecipano della medesima e pericolosa giostra che porta al tragico epilogo. Solo Willy si fa portatore di una passione positiva, quella della cucina che lo spinge a rischiare il posto purché lo chef assaggi la sua modifica ad un piatto. Willy ha un sogno per il suo futuro, quello che manca agli altri ragazzi. È questa aria stantia nelle menti dei giovani che mette più angoscia nello spettatore.
Tutti i personaggi sembrano incatenati ad un presente fatto di nulla che li induce a consumare il loro tempo senza consapevolezza, in balia degli eventi. Da queste braci sotto la cenere può scaturire la violenza senza senso che toglie la vita a Willy, che ha avuto solo la colpa di provare a sedare un litigio. Strazianti poi sono le urla dei suoi compagni quando si accorgono che il suo corpo è inanimato, ma ormai è troppo tardi e anche noi ne vedremo solo le spoglie all’obitorio per l’ultimo saluto della madre e della sorella.
Il film non concede sconti ai colpevoli che vengono arrestati e restano ammutoliti di fronte all’enormità di quello che hanno fatto. Anche noi restiamo in silenzio a domandarci se quanto avvenuto poteva essere evitato. 40 secondi pone interrogativi senza dare facili risposte, si accontenta di traumatizzarci e si conclude con immagini di repertorio sui titoli di coda delle manifestazioni di solidarietà per Willy, a conferma che purtroppo questa storia è vera.
Una nota particolare meritano le recitazioni di tutti i giovani attori chiamati a ruoli scomodi eppure resi con molta efficacia. Si segnala sopra gli altri Francesco Gheghi nell’interpretazione dell’ambiguo Maurizio.
Giovanni Capetta
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