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Giovani Madri


TITOLO ORIGINALE: Jeunes mères
REGISTA: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
SCENEGGIATORE: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
PAESE: Belgio, Francia
ANNO: 2025
DURATA: 105'
ATTORI: Babette Verbeek, Lucie Laruelle, Janaïna Halloy Fokan, Elsa Houben, Jef Jacobs, Christelle Cornil
SCENE SENSIBILI: Riferimenti ad abuso di alcol e droga; turpiloquio
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Jessica, Perla, Ariane e Julie sono quattro ragazze madri. Di fronte alla propria gravidanza, in Jessica si riattiva il tormento dovuto all’abbandono da parte di sua madre, di cui si mette in ricerca. Perla sogna che il bambino appena nato ne persuada il padre a restare in coppia con lei. Ariane vuole tenere sé stessa e il proprio figlio al riparo dall’inaffidabile nonna del piccolo. Julie cerca di liberarsi dalla tossicodipendenza. Sostenute dal centro di assistenza di cui sono ospiti, le quattro adolescenti cercano così di affrontare l’improvvisa, nuova vita spalancatasi dinanzi a loro.

 

Accompagnati nel dolore

Come ogni film dei fratelli Dardenne, Giovani madri mette piede nel territorio dell’emarginazione economica e sociale, evidenziandone l’origine – o perlomeno l’attinenza – psicologica ed esistenziale. Ciascuna delle quattro protagoniste, prima ancora che tremare di fronte all’imprevisto della maternità, porta dentro di sé la propria sofferenza di figlia, la relazione più o meno dolorosa con la propria madre. È tipico dei fratelli Dardenne insistere sulle ricadute che l’assenza di una solida esperienza filiale ha sulla vita personale e collettiva: nel caso specifico, si tratta di fragili ragazze che la gravidanza, obbligandole ad un precoce apprendistato di vita adulta, rischia di risucchiare in una spirale di fragilità ulteriore.

Sono proprio le spirali – il pericolo che la miseria trascini la persona in un immiserimento sempre maggiore – ciò che i Dardenne sentono da sempre l’urgenza di spezzare. E in Giovani madri scelgono di far compagnia allo spettatore nella discesa al fondo del tetro vortice: la presenza delle assistenti della casa famiglia impedisce infatti che la vicenda delle protagoniste si trasformi in una stremata, sconsolata, angosciosa lotta per la sopravvivenza. C’è malessere, ma non c’è abbandono.

 

Un inno alla vita

Il che contribuisce a fare di Giovani madri, che pur appartiene a pieno titolo al variegato mondo del cinema d’autore, un film perfettamente godibile da chiunque. Il suo significato si lascia afferrare e gustare senza difficoltà: si tratta di un chiaro inno alla vita, perdipiù intonato da due autori oltremodo disincantati, per i quali non c’è approdo ad un eventuale paradiso che non preveda il transito per l’inferno. Inferno che, per essere neutralizzato alla radice, richiede intelligenza vigile, cuore saldo e mani all’opera.

A non essere del tutto trasparente è invece la loro posizione in merito al tema dell’interruzione di gravidanza, evocato a più riprese in corso d’opera. Sta di fatto che, per un motivo o per l’altro, convintamente o meno, le quattro protagoniste hanno imboccato una strada alternativa all’aborto: strada lunga, esigente e senza scorciatoie, che può legittimamente intimorire, ma che può riservare inimmaginate sorprese. E che è tanto più percorribile quanto più attorno viene a saldarsi una comunità di sostegno: il proverbio secondo il quale per crescere un bambino occorre un villaggio ben si addice a Giovani madri. Non a caso viene dedicato dello spazio, oltre che al centro di accoglienza, ad alcuni dei padri, non meno giovani delle loro coetanee rimaste incinte: anche a loro spetta decidere se accettare o meno la sfida di crescere il figlio inatteso.

 

Una ragione per vivere

Tra le righe, s’intravede una ricerca di significato. Per accogliere un figlio, è inevitabile domandarsi perché valga la pena vivere: non soltanto perché meriti di essere custodita la vita altrui, ma innanzitutto la propria. E se tra le protagoniste si aggira dell’insicurezza in merito, lo si deve anche al fatto che loro stesse, per prime, non hanno sperimentato su di sé la certezza di essere volute dalla propria famiglia. Alla trasmissione della vita è dunque coessenziale quella di una valida ragione per vivere: se quest’ultima viene smarrita lungo la via, se nel dispiegarsi della catena delle generazioni si manca di consegnarla in eredità, la spirale della miseria trova spazio per incubare.

È forse anche per questo che vengono recitati i versi di una poesia di Guillaume Apollinaire (L’addio), in cui si afferma: «Ricorda ancora che io ti aspetto». È in parole come queste che, secondo Jean-Pierre e Luc Dardenne, s’intravede il fondamento di un’esistenza non più tentennante e gracile, ma responsabile e tenace. Che lo sappiano o no, le periferie dell’emarginazione attendono questo.

 

Marco Maderna

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