L’incontrastato re del tennis, lo svedese Björn Borg, e l’aspirante al trono, il giovane americano John McEnroe, si avviano a disputare la memorabile finale di Wimbledon del 1980. Mentre il fatidico match si avvicina, conosciamo la fatica esistenziale dei due fuoriclasse: i costi della celebrità, il ricordo degli inizi, i demoni interiori. Scopriremo che, a dispetto della diversità che li ha resi protagonisti di una storica rivalità (il regolarista contro l’imprevedibile, il freddo contro il fumantino, il difensore contro l’attaccante, il metodo contro il talento) Björn e Mac erano in fondo simili. Fatti per capirsi.
Film bello nella fotografia (i colori desaturati del Centrale nelle riprese TV anni Settanta). Bello anche nell’interpretazione di Gudnason, bravo a rendere l’inespressività mesta di Borg (meno apprezzabile LeBeouf, ma il mix di maleducazione e genialità del campione Usa era una sfida più difficile). Film, purtroppo, mediocre nella storia. La citazione in esergo tratta da Open di Agassi invita al confronto con quella magnifica biografia tennistica e finisce per accrescere l’insoddisfazione al termine della pellicola. I fatti – una partita divenuta leggenda – e i personaggi – sportivi entrati nell’immaginario mondiale – promettevano. Poco è mantenuto.
Perché Borg era Borg? Perché il suo allenatore gli aveva imposto di controllare le emozioni. Bene, ma glielo dice appena qualche volta. Non vediamo come la cosa si traduce in pratica nel gioco. E perché il Borg bambino era irascibile sul campo? Perché voleva essere il primo. Anche qui, ok, bene, ma non basta che il bambino Borg lo dica una volta, e nemmeno un accenno all’estrazione popolare della famiglia, per far capire il sacro fuoco agonistico dell’“Orso” svedese. Considerazioni analoghe per lo sfidante americano: non basta uno spezzoncino sulle attese dei genitori per spiegare il facile furore del “Monello”. Perché, poi, nella mitica finale, il ragazzaccio non dà di matto come nelle partite precedenti? La spiegazione narrativa non perviene.
Sbrigativo su questi aspetti, il film arranca nella prima parte, dominato dalla malinconia enigmatica di Borg. Eccede con l’enfasi nella seconda parte, dove ci si affida alla grancassa dei telecronisti per caricare lo spettatore. In effetti, anche nella resa della gara il film è lacunoso. Visivamente, i flash sui due che giocano sono belli. Le controfigure funzionano. Il punto, però, è che è un cumulo di frammenti in cui non emerge un’azione di gioco significativa del dramma, tematicamente rilevante (l’equivalente di Rocky che incassa e si rialza nell’omonimo film, di Lauda che si ritira dalla corsa in Rush, del prodigio degli scacchi Josh che in Alla ricerca di Bobby Fischer fa mosse diverse da quelle insegnatagli dall’esigente istruttore). A perderci è soprattutto McEnroe, cui il film non dà giusto tributo. Sottolineandone il caratteraccio, ne tace completamente ciò che lo ha consacrato ad imperitura memoria: l’estro. Come se si raccontasse Maradona senza mostrarne il dribbling (non per nulla, il grande Gianni Clerici ha chiamato Mac “il braccio sinistro de Dios”). Condivisibile, dunque, il malumore del mancino newyorchese. La sua è anche una valida sintesi critica dell’opera: “Il problema è che gli sceneggiatori hanno inventato storie immaginarie per farmi sembrare un coglione quando invece c’erano un sacco di cose reali da raccontare che avrebbero giovato al film alla grande”.
Scegliere un film 2018
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