1918, alla vigilia della sofferta vittoria italiana della Prima Guerra Mondiale, il capitano Stefano e il tenente Giulio, amici dai tempi degli studi, operano come ufficiali medici in un ospedale militare affollato di gravi feriti che continuamente arrivano dal fronte. Stefano, di influente famiglia borghese, manifesta il suo patriottismo, rimandando presto in trincea chi ritiene ancora idoneo ed è ossessionato dallo smascherare i tanti autolesionisti che si procurano ferite ulteriori nella speranza di essere congedati. Giulio, invece, più mite e portato alla ricerca, appare meno rigoroso coi pazienti. In verità, è lui stesso che, di nascosto, aggrava appositamente le condizioni di chi glielo chiede ed è disposto a subire mutilazioni o altro, pur di essere mandato a casa. Con la involontaria complicità di Anna – una studentessa in medicina, sopraggiunta come infermiera volontaria e già anni prima sentimentalmente combattuta fra i due ufficiali – Stefano intuisce che il sabotatore che aiuta i disertori è proprio Giulio. Evitandogli la corte marziale, Stefano relega, però, Giulio in un fortino dove nel frattempo sono stati ammassati i soldati che hanno contratto la mortale “febbre spagnola” che sta decimando anche i civili. Raggiunto da Anna, che sceglie la sua causa, Giulio si consuma tentando, invano, di trovare un vaccino.
Fin dal primo lungo piano sequenza notturno fra i corpi ammassati dei caduti da cui affiora la mano di un sopravvissuto, è evidente l’intento di provocare un vero e proprio orrore. È poi insistita l’implicita denuncia della guerra attraverso la mancanza di pudore nell’avvicinare la macchina da presa ai corpi sanguinanti e straziati dei reduci nelle corsie dell’ospedale. Il film di Amelio – in concorso a Venezia 2024 – è un film sulla insensatezza della guerra senza che venga sparato un solo colpo, se non quello al povero soldato condannato a morte per essere stato scoperto con un aggravamento volontario delle sue condizioni. Anche l’utilizzo dei tanti diversi idiomi dialettali per cui i commilitoni non si capiscono fra loro e hanno in comune solo paura e sofferenza evidenzia la crudeltà di un conflitto che non appartiene a chi sta dando il sangue per esso. Il campo di battaglia del titolo è anche quello fra Stefano e Giulio: il primo ubbidisce, zelante, alla ragion di Stato e presta la sua competenza medica non per salvare vite umane ma per una causa freddamente politica; Giulio, invece, è soldato suo malgrado e non crede nella guerra al punto di esercitare una sorta di obiezione di coscienza ante litteram. Entrambi vorrebbero che non muoia nessuno (come dice nel sotto finale anche Anna ad un bambino innocente), ma, paradossalmente, per motivi antitetici. Quando, infine, Giulio viene costretto nel suo laboratorio a cercare di fermare il morbo della Spagnola, il campo di battaglia è quello dell’uomo contro la malattia ed è facile andare con la mente alla nostra recente pandemia.
L’utilizzo frequente della camera a mano che precede i protagonisti per poi prendere il loro punto di vista soffermandosi sui tanti anonimi feriti rende la narrazione sempre emotivamente coinvolgente. Il casting attento dei tanti disperati che passiamo in rassegna è parte integrante dell’opera e che sia il claustrofobico ospedale, la casa borghese o il lugubre fortino-lazzaretto, una scenografia scarna ma impeccabile dà autorevolezza all’insieme del racconto. Ciò detto, se nella sua seconda metà del film la sceneggiatura va un poco intorbidendosi rispetto alla limpidezza iniziale, restano di pregevole intensità le interpretazioni dei tre attori principali. Borghi, sempre in parte, offre al personaggio di Giulio il volto di una coscienza assorta e martoriata; Montesi è altrettanto abile nel mostrare l’ambiguità di Stefano, burocrate in divisa. Federica Rosellini offre indubbie doti anche se in scrittura il profilo di Anna è a tratti un po’ evanescente.
Giovanni M. Capetta
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