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C’era una volta in Buthan


TITOLO ORIGINALE: The Monk and the Gun
REGISTA: Pawo Choyning Dorji
SCENEGGIATORE: Pawo Choyning Dorji
PAESE: Buthan, Taiwan, Francia, USA, Hong Kong
ANNO: 2023
DURATA: 107'
ATTORI: Tandin Wangchuk, Kelsang Choejey, Deki Lhamo, Pema Zengpo Sherpa, Tandin Sonam e Harry Einhorn
SCENE SENSIBILI: riferimenti ad un rito religioso con utilizzo di una scultura fallica
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Regno del Bhutan, 2006. Il sovrano del piccolo stato himalayano abdica, per far dono ai suoi sudditi del diritto di voto. Ma il Bhutan è una remota oasi d’alta quota: il suo popolo ha da poco scoperto la televisione e internet, conosce solo in parte il costume occidentale e non ha alcuna idea di cosa il termine «elezione» significhi. L’annuncio del re provoca entusiasmo in alcuni, perplessità, indifferenza o preoccupazione in molti altri. Tra i primi, una funzionaria incaricata di svolgere votazioni di prova nei villaggi; tra i secondi, una madre che vede le linee di partito tracciare i primi dolorosi solchi, dentro casa e non solo. In tutto questo, mentre il regno si prepara ad un cambio d’epoca, il giovane monaco Tashi si procura, su insolita richiesta del suo lama, un fucile: verrà inseguito da un americano tra le alture del Bhutan.

Un film delicato per un tema complesso

Diretto da Pawo Choyning Dorji, che grazie al precedente Lunana – Il villaggio alla fine del mondo (2019) ha contribuito a far conoscere il piccolo e giovanissimo cinema bhutanese nel mondo, C’era una volta in Bhutan è una delicata, a tratti dolceamara, commedia a storia multipla: l’apparente scarsa attinenza della lunga marcia tra i monti di Tashi è in realtà destinata a convergere con le altre sottotrame, contribuendo non poco a chiarificare e riassumere un tema dalle articolate implicazioni politiche.
Ad essere chiamate in causa sono infatti le ragioni stesse della democrazia, costrette, tra i montanari del Bhutan, a spogliarsi di qualunque ovvietà: non solo i bhutanesi non sanno cosa «democrazia» significhi, ma non conoscono nemmeno il linguaggio dei suoi promotori, fatto di «modernità», «progresso» ed «evoluzione». Parole d’ordine che né conquistano, né si fanno comprendere: una superflua soluzione a problemi che il Bhutan non si è neanche mai posto. Uno degli esiti più grotteschi dell’esperimento di transizione è una comica simulazione di dibattito politico, ai cui partecipanti si impartisce l’ordine di acclamare il proprio partito e di tifare contro quello avversario, cercando quindi di innescare passione a comando. Ancora non è nata, e già la nuova istituzione è ridotta ad un gioco delle parti, una recita collettiva orchestrata da un capocomico. Il quale, oltretutto, introduce discordia là dove non c’era.

Un eloquente simbolo

Ed è qui che entrano in gioco il monaco e il suo fucile: non è un caso che a braccarlo tra le montagne sia un collezionista giunto dagli Stati Uniti. Come non lo è la ragione del suo pedinamento: l’arma che l’ignaro Tashi trasporta è un cimelio di inestimabile valore, risalente nientemeno che alla Guerra Civile Americana. Il fucile è dunque un eloquente simbolo di divisione, di cui la più famosa democrazia del mondo, nata da un’insurrezione, ha sofferto durante e dopo la sua fondazione. L’America lo rincorre, ma il Bhutan, pur senza dichiararle ostilità – il placido Tashi non si cura più di tanto di scansare il suo persecutore –, avanza inesorabile lungo la sua strada: qualunque uso vorrà fare di quel fucile, di certo non sarà per seguire le repubbliche occidentali nella loro storia.

La strada bhutanese alla democrazia

Se, infatti, una sovranità popolare nata per (non richiesta) concessione della corona ha un che di paradossale, non è tuttavia alla lotta armata che il Bhutan sceglie di affidarsi. Esiste infatti un vizio di forma più profondo che, stante il film, la piccola nazione intende aggirare: quello di affidare il cambiamento allo smaltimento di un sistema e all’installazione di uno nuovo, anziché alle persone e alle loro relazioni. Vizio di postura nei confronti della realtà, prima ancora che di procedura politica: re o rivoluzionari, chiunque può inciamparvi. Non a caso, la risposta bhutanese sta nel dare la parola ad un fattore pre-istituzionale (chi vedrà, capirà), il cui sorgere è descritto come indipendente da qualunque ordinamento, politicamente improducibile.
Se le radici buddhiste del suo pensiero sfuggono inevitabilmente ai profani, C’era una volta in Bhutan è nondimeno un chiaro invito, rivolto a ciascun popolo, a ripensare il fondamento della propria convivenza, oltre che un’occasione, specialmente per lo spettatore occidentale, di vedersi restituire parte della sua stessa storia. Storia che il Bhutan prende in spalla come Tashi il fucile americano, scommettendo il proprio futuro su qualcosa che l’Occidente, pur possedendolo, potrebbe aver dimenticato.

Marco Maderna

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