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Challengers


TITOLO ORIGINALE: Challengers
REGISTA: Luca Guadagnino
SCENEGGIATORE: Justin Kuritzkes
PAESE: USA
ANNO: 2024
DURATA: 131'
ATTORI: Josh O’Connor, Mike Faist e Zendaya
SCENE SENSIBILI: alcune scene a contenuto sessuale non esplicite, scene di nudo maschile, turpiloquio.
1 vote, average: 2,00 out of 51 vote, average: 2,00 out of 51 vote, average: 2,00 out of 51 vote, average: 2,00 out of 51 vote, average: 2,00 out of 5

Patrick Zweig e Art Donaldson, che giocano a tennis insieme sin dall’infanzia, vincono il titolo di doppio junior all’US Open. A un altro torneo incontrano la promettente tennista Tashi Duncan che diventa l’oggetto del desiderio di entrambi. La ragazza, ambiziosa e manipolatrice, li coinvolge in un gioco a tre, stuzzicandone la rivalità. È Art a vincere sul campo dell’amore e del tennis, intrecciando una relazione stabile con Tashi, che inizia ad allenarlo come coach, e diventando un tennista di successo. Ma quando, in un momento di crisi, Art si ritrova a giocare contro Patrick, il delicato equilibrio della coppia nel tennis e nella vita vacilla.

Un meccanismo perfetto ma senza vita

Con Challengers Guadagnino sceglie le geometrie pulite, i colori asettici, le linee dritte del tennis per esprimere la sua estetica compositiva e la metafora di un desiderio impastato di prevaricazione.
La struttura del film è un orologio perfetto, il meccanismo oliato, il millimetrico rispetto dei tempi e del ritmo: non c’è un fotogramma fuori posto, come non lo sono mai i capelli di Tashi (Zendaya), algido oggetto del desiderio, nemmeno dopo ore di allenamento. Non si possono imputare errori tecnici alla partita giocata dal regista di Chiamami col tuo nome e Suspiria che, con questo film, aspira, più che in altri, a una perfezione esangue ed esasperante. Lo fa ammiccando a una società in cui la performance e la superficie, la fotogenia sui social e nei manifesti, sembrano a volte essere tutto. Dietro questa patina glamour, nel film, rimane pochissimo che ricordi l’umano, la sua profondità, le sue domande, il suo modo imperfetto di soffrire e amare.
La colonna sonora di musica elettronica di Trent Reznor e Atticus Ross è l’espressione più compiuta dello spirito di Challengers e incarna l’atmosfera macchinica, adrenalinica e spietata che si respira. Non un cedimento, non un inciampo, nessuna concessione alla compassione.

Il deserto del desiderio

La stessa studiatissima freddezza contraddistingue la storia e i dialoghi sceneggiati da Justin Kuritzkes: è difficile rintracciare qualsiasi emozione all’interno del matrimonio e della genitorialità di Tashi e Art (Mike Faist), o qualsiasi sentimento nel triangolo tra i tre giocatori. Nemmeno la sofferenza di Tashi, a cui è precluso il sogno di una vita, presenta sprazzi di autenticità. Sembra di seguire macchine che giocano il tennis come giocano la vita, con l’ossessione matematica del punteggio.
Forse un barlume di calore, di umanità, brilla ancora nell’amicizia decennale tra Art e Patrick (Josh O’Connor). E, se come sostiene Tashi, il “tennis è relazione”, vorremmo vedere giocare di più questi due, scorgere l’affetto, la sofferenza, nel loro rapporto, sapere se esiste qualcosa in loro oltre la sete di vittoria (che sia di una partita o delle attenzioni di una donna). L’interpretazione dei due talentuosi attori spinge in quella direzione ma viene ogni volta frenata. Al di là di una fredda tensione sessuale, non si concede nessun sentimento.
La relazione a cui si fa riferimento in Challangers sembra modellata sulla logica meccanica del “servire” e del “rispondere”, una dinamica servo-padrone a cui viene equiparato il moto del desiderio. Ma il desiderio non è geometrico, è gratuito, informe, eccedente, e infatti nel film non risulta pervenuto. Come non sono pervenute lacrime, emozioni, risate e nemmeno i sospiri adolescenziali che altri film dello stesso regista amavano suscitare.
Persino lo sfondo è inesistente, come qualsiasi riferimento alla società che travalichi la dimensione asfissiante del triangolo: le battute di Tashi/Zendaya sul razzismo fanno capolino all’improvviso, un tributo senza legami con la storia, sospeso nel nulla.
Il quadro che ne risulta è quello di un deserto accecante, battuto dal rumore assordante del vento, unica presenza poetica. Un inferno così esasperante che forse nasconde una critica al modo odierno di intendere le relazioni. Ma il senso del tragico è sostituito dal glamour e dall’esaltazione adrenalinica, non lasciando scampo a nessun pensiero, a nessuna consapevolezza.

Eleonora Recalcati

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