Dopo essersi allenati duramente per diventare “Demon Slayers” sempre più forti, il giovane Tanjirō e i suoi compagni raggiungono il Castello dell’Infinito per sconfiggere Muzan, il re dei demoni. Prima però devono battersi con le Lune Crescenti, demoni dai grandi poteri che agiscono sotto il comando diretto di Muzan.
Nel giro di pochi anni, Demon Slayer ha guadagnato enorme popolarità: dal fumetto originale, opera prima dell’autrice Koyoharu Gotōge, sono stati tratti spin-off, videogiochi, serie tv e film di successo. Tra questi c’è Il Castello dell’Infinito -che in Giappone ha incassato più di Titanic e La città incantata, capolavoro dello Studio Ghibli- e in Italia debutta con oltre 800 mila euro nel primo week end, superando franchise pure molto noti come The Conjuring o Downtown Abbey. Del resto, anime e manga hanno smesso da tempo di essere considerati prodotti di nicchia – come dimostra la loro crescente presenza sulle piattaforme o in libreria – per diventare un fenomeno globale. Alla base di tanto interesse non ci sono solo disegni accattivanti o raffinate strategie di marketing, ma – almeno negli esempi più riusciti – personaggi archetipici e storie dal sapore universale, di grande appeal per il pubblico giovane. Nel caso di Demon Slayer, abbiamo i classici ingredienti del racconto d’avventura: una premessa fantasy (la terra minacciata dai demoni, creature malvagie che si nutrono di esseri umani), l’ambientazione intrigante (il Giappone romanzato di inizio Novecento), e un protagonista coraggioso, Tanjirō, con una posta in gioco molto alta: diventare un “Demon Slayer” (uccisore, sterminatore di demoni) e trovare un antidoto per salvare sua sorella, trasformata in demone da Muzan in persona.
Primo capitolo di una trilogia che coprirà l’arco finale del manga, Il Castello dell’Infinito sa di rivolgersi a un fandom ben assestato, perciò non si preoccupa di fare introduzioni. Questo renderà ostica la visione a chi non conosce nulla della saga: cifra stilistica di Demon Slayer è infatti l’intreccio di numerose trame parallele, che frammentano la narrazione in tanti episodi (centro del franchise è proprio la serie tv), culminando in spettacolari combattimenti all’arma bianca. Il Castello dell’Infinito, una fortezza fatta di stanze e corridoi che si espandono in tutte le direzioni, simboleggiando il delirio di onnipotenza di Muzan, è quindi l’arena perfetta per mettere in scena queste battaglie. Attenzione, però: Demon Slayer non è il solito picchiaduro. Per quanto l’azione resti il piatto forte del racconto, anche grazie alle pirotecniche animazioni di Ufotable, sono le emozioni dei personaggi e i valori in cui credono ad arrivare forte al cuore degli spettatori. I loro ricordi, ripercorsi con continui flashback, rivelano un filo rosso comune: l’importanza della famiglia. A scendere in campo sono coloro che sono stati colpiti negli affetti più cari, perché – sembra dirci il film – la guerra nasce quando i legami si spezzano e perdiamo il contatto con la nostra umanità.
È quanto emerge nelle vicende dei demoni, cioè di tutti quelli che, di fronte a una tragedia personale, hanno scelto di rispondere con il male anziché con il bene. La loro sconfitta è innanzi tutto una sconfitta morale, rappresentata con intensa drammaticità. Ne è un esempio lo scontro, a cui la pellicola dedica ampio spazio (forse troppo, per chi è abituato agli standard occidentali), tra Tanjirō, Tomioka (un altro ammazzademoni), e il demone Akaza. Il film gioca con le attese del pubblico – che vorrebbe vedere Akaza perdere perché ha ucciso Rengoku, uno dei guerrieri più valorosi di Demon Slayer – rivelandone il triste passato di uomo che si è ritrovato sulla strada sbagliata per disperazione più che per malignità. Sarà Tanjirō, che non combatte per vendetta ma per difendere i più deboli, a far scattare in Akaza una specie di catarsi, ricordandogli cosa sia la vera forza. Insomma, dietro alla facciata dello shōnen (termine che in giapponese indica le opere per adolescenti maschi) a tinte horror, c’è una storia “mainstream” ricca di sentimenti – alcuni la definiranno, anche furbescamente, sentimentale – con un eroe che più buono non si può, e in grado di regalare un’esperienza cinematografica profondamente immersiva.
Maria Chiara Oltolini
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