Fra il finire della Prima Guerra Mondiale e l’avvento del Fascismo, gli ultimi anni di vita della Divina attrice teatrale Eleonora Duse che troviamo a rincuorare le truppe e poi a cercare invano un ultimo successo dopo dodici anni dal suo precedente spettacolo. Un sussulto di vitalità pur se segnata nel corpo dalla tubercolosi e afflitta dai debiti la rende protagonista di un tentativo di mettere in scena una nuova opera senza rendersi conto di non esserne più in grado e subendo così l’onta dell’insuccesso. Anche il rapporto con Gabriele D’Annunzio si rompe per l’incomprensione dei reciproci declini e l’attrazione dei due si trasforma in gelosia e disprezzo.
Presentato in Concorso all’ultimo Festival di Venezia, il film è un biopic particolare che sceglie di rappresentare la protagonista attraverso i suoi stessi stati emotivi più che nella successione di eventi narrativi, che sono ridotti all’essenziale. Di fatto siamo avvinti dalla personalità della Divina che si presta ad essere letta attraverso le sue emozioni e sentimenti contrastanti. Appassionata e languida, acuminata e fragile, l’attrice, che ammalia con la sua presenza scenica qualunque cosa faccia, è in balia di un sogno che non è più in grado di realizzare. Già avanti negli anni, malata e senza più risorse economiche Eleonora Duse sceglie di tornare sul palcoscenico perché lo considera come una sorta di dovere morale nei confronti del pubblico. Il suo slancio vitalistico la porta, nonostante sia allo stremo delle forze, a mettere in scena un’opera acerba, di un esordiente alla scrittura, pur di dimostrare di essere ancora capace di calcare la scena. È la convinzione che il suo teatro possa essere ancora strumento politico e sociale che la porta verso il fiasco conclamato. Vuole a tutti i costi essere ancora protagonista della storia, ma non si accorge che la sua lucidità viene meno. Il dramma interiore che si consuma la vede affannarsi come maestra degli attori della sua compagnia ma senza riuscire più a trasmettere il fuoco interpretativo che l’ha resa famosa. Anche le relazioni affettive risentono dei suoi deliri, così è per la sua assistente che vive per lei ma la Duse tratta come una badante severa. Vi è poi il rapporto con sua figlia di amore e odio, attrazione e repulsione come se la maternità non le sia mai davvero appartenuta. Infine il sodalizio sentimentale ed artistico con Gabriele D’Annunzio, in cui due ego troppo ingombranti finiscono per scontrarsi e lasciarsi bruscamente. Leggiamo i personaggi di contorno come falene che si scottano a contatto con la luce abbagliante della Duse. Lei ha bisogno di loro, ma nello stesso tempo è come se riflettesse una luminosità propria e intermittente fatta di slanci e cadute, fremiti e svenimenti che gli altri possono solo accompagnare con empatia e partecipazione ma senza la possibilità di esserle concretamente d’aiuto. Anche noi assistiamo inermi alla lenta fine di una fenice che sembra sempre avere un nuovo sussulto di vita.
Scegliendo inquadrature sempre molto strette sulla protagonista il film è tutto ancorato all’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi. Gli stessi dialoghi passano in secondo piano rispetto alla rappresentazione degli stati emotivi della Duse che riempiono sempre la scena e dettano il ritmo del racconto. Anche nei momenti di passaggio fra una scena principale e la successiva noi siamo attratti dalla fisicità della interprete che, magistralmente vestita da costumi suggestivi, resta il faro costante della narrazione, si pensi alle transizioni per una Venezia lugubre e scarna, in cui la Duse sembra portare luce con il suo semplice passaggio. La Bruni Tedeschi entra nella parte coi suoi tratti, la sua forza e la sua fragilità pienamente messe al servizio del personaggio anche se talvolta lo sforzo recitativo sembra un po’ fine a sé stesso, compiaciuto di una eccentricità che rischia di fagocitare le altre interpretazioni.
Un commento a sé meritano gli inserti di immagini di repertorio rielaborate, come quelle che vedono il passaggio ferroviario del feretro del milite ignoto. In sé la qualità e l’eleganza delle sequenze non si discutono, ma risultano un poco stranianti e poco legate al cuore caldo del racconto.
Giovanni Capetta
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