Washington, 1936. Joe Rantz è un povero studente costretto a vivere dentro un’automobile nella baraccopoli della città. Ha urgentemente bisogno di soldi o non potrà pagare la retta universitaria. Quando scopre di una competizione per entrare nella squadra di canottaggio dell’università che potrà dargli soldi e un letto in dormitorio, Joe si iscrive nonostante non abbia mai praticato lo sport in vita sua. Viene selezionato nella squadra junior; la stessa che il coach Al Ubrickson deciderà di mandare alle Olimpiadi di Berlino contro i nazisti.
Erano ragazzi in barca non cerca di distinguersi dalla già esistente moltitudine di pellicole sportive, offrendo ai suoi spettatori un film di genere, molto classico e pulito. La messa in scena è lineare, e il ritmo prevedibile ma dinamico. È una storia come ne abbiamo viste tante, di giovani con poche speranze che però hanno un talento in più degli altri, e che con il duro lavoro riescono a raggiungere un obiettivo a detta di tutti impossibile.
Ci sono alcuni problemi espositivi, che rendono più macchinosa del necessario la comprensione di alcune dinamiche narrative – vedi il fatidico scontro con la squadra “Cal” che raramente spiegano trattarsi dell’università rivale della California, oppure una mancata distinzione più chiara tra l’esistenza di una squadra di canottaggio junior e una seconda di rematori esperti. Ma alla fine ciò che vince sono i buoni sentimenti e lo spirito di competizione; l’amicizia, la sfida e la rivincita. Siamo nel mondo dei semplici di cuore, semplici come il nostro protagonista Joe.
Tuttavia, la strana sensazione che emerge durante e alla fine del film, è che forse c’era pure una grande storia da raccontare, ma non quella di Joe Rantz. È vero, l’avventura di Joe è una storia di rivalsa, di emersione sociale, la storia di un umile che vince l’oro alle Olimpiadi. Ma allora perché invece non raccontare la storia di Don Hume, l’ottavo rematore e dunque il più abile tra questi ragazzi, asociale genio che guiderà la squadra alla vittoria nonostante sia ammalato e febbricitante. Altrimenti poteva avere più senso raccontare la storia del coach Ubrickson, stella mancata del canottaggio che ha rischiato il tutto per tutto portando questi giovani talenti all’oro. Persino Bobby Moch, il timoniere ribelle a cui viene data una seconda chance e che riesce a unire questi otto “cavalli imbizzarriti”, avrebbe potuto raccontare una storia più interessante di quella di Joe.
L’effetto finale è quello di un film carino e che fa il suo mestiere, ma un po’ troppo all’acqua di rose. Si racconta di unità e senso di squadra e appartenenza, ma lo si fa in modo assai poco memorabile. Si tenta poi di descrivere un altro schiaffo che gli americani avrebbero saputo infliggere a Hitler e al nazismo prima del grande conflitto bellico; ma anche qui semplicemente la retorica pare poco credibile.
Erano ragazzi in barca è un film con poca arte e meno parte, superando appena al box office il suo budget di produzione. Originalmente il film l’avrebbe dovuto girare Kenneth Branagh nel 2011; ma forse il problema non è stato tanto Clooney alla regia, quanto Mark L. Smith alla sceneggiatura. La trasposizione pedissequa dall’omonimo libro al copione non è stata sufficiente a costruire una storia veramente appassionante.
Durante il film coach Ubrickson dice “we need an edge”, ovvero “ci serve un vantaggio/una marcia in più”. È la stessa cosa che sarebbe servita a questo film; lo dice l’Hollywood Reporter. E noi, umilmente, ci sentiamo di concordare.
Alberto Bordin
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