Roma, 1980. La scrittrice Goliarda Sapienza, dopo anni di salotti letterari in cui non veniva considerata, mossa dalla disperazione e dalla rabbia, ruba alcuni gioielli dalla casa di un’editrice. Viene incarcerata a Rebibbia, dove incontra un gruppo di giovani detenute, tra le quali Roberta e Barbara. Grazie a loro, quel contesto di segregazione diventa per lei il luogo della ripartenza. Nell’estate dello stesso anno, Goliarda esce dal carcere e, con le amiche conosciute dietro le sbarre, affronta la vita con nuovo slancio.
Per comprendere il senso di un film complesso come Fuori, è necessario partire dal titolo. Fuori – o dentro – dal carcere. La pellicola è liberamente ispirata ai due romanzi autobiografici di Goliarda Sapienza L’università di Rebibbia e La certezza del dubbio, in cui la scrittrice racconta proprio come il suo carcere non fosse “dentro”, ma “fuori”. Era il contesto socio-culturale in cui viveva, pieno di ambiguità e di contraddizioni, la sua prigione. Nel momento in cui finisce dietro le sbarre, incontra donne semplici, che non la giudicano; ragazze che sì, non hanno la sua cultura, ma per le quali non conta altro che il rapporto umano. Tanto che, una volta uscita da Rebibbia, Goliarda non torna nei salotti, ma frequenta le sue nuove amiche Roberta e Barbara, con le quali avverte un’evidente affinità. In tal senso, Fuori celebra la solidarietà femminile e la forza delle donne, affiancandosi ad altri due film italiani, campioni d’incassi, C’è ancora domani di Paola Cortellesi e Diamanti di Ferzan Ozpetek, promotori degli stessi valori, e formando, in qualche modo, una trilogia della Donna.
Mario Martone, in un commento al termine dell’anteprima dello scorso 21 maggio, ha spiegato che Fuori vuole essere un ritratto di Goliarda Sapienza, non un film sulla sua vita. Di fatto, la storia della scrittrice italiana attraversa un secolo ricco di eventi – per esempio la donna ha vissuto in pieno la Seconda Guerra mondiale, durante la quale ha addirittura lottato tra i Partigiani. Ma se nel Giovane Favoloso, il film dello stesso regista su Giacomo Leopardi, Martone copre la quasi totalità della vita del grande poeta, qui sceglie di focalizzarsi su quel 1980, anno in cui la Sapienza toccò il fondo, per poi rialzarsi. Una sorta di quadro, quindi; un’istantanea in cui Goliarda viene impressa insieme ai suoi personaggi, perché sì, Roberta e Barbara sono esistite davvero, ma i loro personaggi sono stati rivisitati dalla stessa autrice nei libri da cui la pellicola è tratta.
Fatte tutte queste considerazioni, la domanda da porsi, a questo punto, è se il film riesca veramente nei suoi intenti. E qui torniamo alla metafora del ritratto, scelta dallo stesso regista. Potremmo dire che Fuori è più simile a un ritratto d’arte contemporanea, che a uno ottocentesco. In altri termini, il film potrebbe non essere immediatamente comprensibile: sequenze più o meno chiare, si alternano in un modo, almeno in apparenza, piuttosto slegato. Nel suo essere un ritratto, la storia non sembra avere mai uno sviluppo narrativo e gli “eroi” che conosciamo all’inizio non evolvono verso un qualsivoglia cambiamento; restano uguali a sé stessi fino alla fine.
Va altresì detto che il titolo “Fuori” ha anche una valenza simbolica: significa “fuori dagli schemi”. I personaggi del film sono lontani da ogni tipo di convenzione sociale. Sono presentati come poco abbienti, ma in quasi tutte le sequenze, sperperano denaro. Se non possono avere qualcosa, la rubano. E soprattutto, capovolgono sempre la realtà, raccontando come giusto ciò che non lo è affatto. La richiesta allo spettatore non è solo di accettare questa “stranezza” nei comportamenti, ma addirittura di coglierne un “bello”, che però non è così immediato, né tanto meno ovvio, e –giusto o sbagliato che sia- questo film eccessivamente frammentato non ha la forza per cercare davvero di convincerci.
Riccardo Galeazzi
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