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Godland – Nella terra di Dio


TITOLO ORIGINALE: Vanskabte land
REGISTA: Hlynur Pálmason
SCENEGGIATORE: Hlynur Pálmason
PAESE: Danimarca, Islanda, Francia, Svezia
ANNO: 2022
DURATA: 143'
ATTORI: Elliott Crosset Hove, Ingvar Eggert Sigurðsson, Vic Carmen Sonne e Jacob Lohmann
SCENE SENSIBILI: nessuna
1 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 5

Nella selvaggia ed ostile Islanda, quando ancora era dominio danese, un giovane pastore luterano parte dalla madrepatria con l’incarico di riuscire a superare ogni avversità e costruire la prima chiesa per una piccola comunità di coloni. È un viaggio ai limiti della sopravvivenza, contro l’impetuosità del fiume, le fauci bollenti del vulcano, la rozzezza di Ragnar, guida islandese che non parla la sua lingua. La fede di padre Lucas è messa a dura prova, ma gli è di conforto la passione per la fotografia, i cui rudimentali strumenti sono, però, un pesante giogo sulle spalle. Le sette fotografie di fine Ottocento, che vengono ritrovate, sono la prova della verità di questa storia e lo specchio di un dramma che va svelandosi solo sotto finale, dopo un lungo viaggio, estenuante a tratti anche per lo spettatore.

Se il cinema fosse solo tecnica, un film impeccabile

Sono due ore e venti impegnative quelle in cui si sviluppa Godland. Nella Terra di Dio, un film per il quale molti critici hanno usato la parola “capolavoro”, forse con troppo entusiasmo. Hlynur Pálmason – regista islandese già autore di A White, White Day, con il quale vinse la 37esima edizione del Torino Film Festival e ottenne il Rise Star Award al Festival di Cannes del 2019 – qui raggiunge una notevole maturità stilistica e una cura davvero ammirevole di tutto quello che afferisce alla dimensione tecnica. C’è una fotografia che, nel suo nitore, asseconda in modo raffinato la drammaticità della narrazione, accentuando le tinte fosche e le mille sfumature dei dominanti colori lividi. La messa in scena è curata in ogni dettaglio e le riprese in esterna, anche quelle più ardite, raggiungono con efficacia la percezione dello spettatore. La stessa recitazione, in particolare quella del protagonista, è all’altezza del progetto e anche da questo punto di vista il prezzo del biglietto può dirsi ripagato.

Una natura ostile può rendere anche gli uomini incapaci di amare?

Se quello appena espresso è il giudizio tecnico, molte più perplessità suscita l’assunto contenutistico che è chiaramente sotteso al film e assecondando il quale lo spettatore non può non ricevere una sensazione di angoscia profonda. Alcuni ricorderanno il Dialogo della Natura e di un islandese nelle Operette morali di Giacomo Leopardi e sulla scorta del grande poeta recanatese, dopo la visione del film ci si potrebbe chiedere: “è possibile credere in un Dio creatore che ha pensato una Terra così ostile all’uomo?” Quest’ultimo spesso è sperduto, perso nelle vaste inquadrature, come una formica in balia dell’abisso. “Che cos’è l’uomo perché te ne curi?” recita il Salmo 8 e la risposta dettata da Godland contraddice il prosieguo dei versi biblici: sarà pure poco meno degli angeli, ma nella terra che in danese e islandese significa “malformata” (la traduzione internazionale del titolo è molto fuorviante) per l’umanità non pare esserci posto, anzi, anche gli uomini, in questa landa desolata, si corrompono prima moralmente e poi fisicamente; come icasticamente viene rappresentato dalle ossa che in rapido timelaps si consumano fino a fondersi in humus. È una tragedia dove l’amore non vince sull’odio e il calore degli affetti viene sopraffatto dalla sete di vendetta. La maggior parte del pubblico può cogliere solo un messaggio desolante: la natura è matrigna, claustrofobica e i personaggi che in essa cercano la sopravvivenza sono anime in balia di demoni che non si possono vincere. Lo stesso protagonista – che, sobbarcandosi l’onere di una missione proibitiva, che lo prova ai limiti della sopravvivenza fisica fino a fargli mettere in discussione perfino la fede – di fatto pare in balia di un perfezionismo fine a se stesso, un imperativo categorico non liberante che, infatti, non gli permette di amare pienamente la donna da cui è attratto e lo spingerà verso un finale tragico e senza speranza.

Giovanni M. Capetta

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