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Grand Tour


TITOLO ORIGINALE: Grand Tour
REGISTA: Miguel Gomes
SCENEGGIATORE: Mariana Ricardo, Telmo Churro, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
PAESE: Portogallo, Italia e Francia
ANNO: 2024
DURATA: 129'
ATTORI: Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Claudio da Silva e Lang Khe Tran
SCENE SENSIBILI: nessuna
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1917. Edward, funzionario britannico in Birmania, sta per essere raggiunto a Rangoon dalla fidanzata storica, Molly, che non vede da sette anni e che vuole finalmente sposarlo. L’uomo però non ha la minima intenzione di convolare a nozze e si dà alla fuga prima che la ragazza arrivi, iniziando a girovagare da un Paese all’altro per tutta l’Asia orientale. La promessa sposa non si dà per vinta e invece di tornare a Londra, si lancia all’inseguimento del fuggitivo, seguendone le tracce…

Uno strano inseguimento

Con l’espressione grand tour, a partire dal diciottesimo secolo, si faceva comunemente riferimento a certi viaggi di formazione, intrapresi da giovani aristocratici per visitare le principali località europee di rilievo storico e culturale. Il titolo del film sembra quindi fare riferimento, presumibilmente in chiave ironica (dato anche il tono del racconto) a questo tipo di esperienza, anche se non è il Vecchio Continente lo scenario del viaggio, bensì l’Estremo Oriente, attraversato in lungo ed in largo dai due protagonisti, l’una al seguito dell’altro, nel secondo decennio del secolo scorso (ovvero quando esisteva ancora l’impero coloniale britannico).
In questo contesto storico si svolge quindi la vicenda dei due promessi sposi – partendo dalla capitale birmana per arrivare al Fiume Giallo in Cina, passando da Singapore, Filippine, Thailandia e Giappone – i quali, fatto divertente, sembrano davvero due turisti altolocati in vacanza invece che due giovani disperati moralmente incastrati in una situazione affettiva che ha ben poco di piacevole, raccontata poi con una leggerezza che sorprende e disorienta ma che rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più originali del film.

Punti di vista

Tutto il film, girato in buona parte durante la pandemia, rispecchia questa ambiguità latente tra la complessità del tema (l’amore adulto) e l’atteggiamento dei protagonisti, ai limiti del grottesco. Anche la regia (premiata a Cannes) raffinata ma al tempo stesso “povera”, facendo in qualche modo di necessità virtù, utilizza molte immagini che sembrano di repertorio e l’espediente di una misteriosa voice over in lingua originale (anzi due, una maschile ed una femminile, e solo alla fine scopriremo a chi appartengono) per giocare su questa dicotomia riconoscibile nei contenuti ma anche nello stile, sempre teso tra la commedia e la tragedia, il dramma e il documentario, l’Oriente e l’Occidente, il realismo e la finzione, utilizzando elementi che caratterizzano ora l’uno ora l’altro aspetto, e ad una ricca sequenza di quadretti descrittivi e formalmente impeccabili (sia in bianco e nero sia a colori), in cui la storia è portata avanti dalla voce narrante e i personaggi nemmeno si vedono, vengono alternate sporadiche scene dialogate dai toni vagamente comici e decisamente surreali.

Un finale enigmatico

Anche la struttura drammaturgia è divisa in due metà pressoché equivalenti in termini di minutaggio (piuttosto lungo complessivamente, per oltre due ore di film) in cui si ha l’avvicendamento dei due punti di vista – dapprima quello del fuggitivo poi quello della inseguitrice – che sviluppano la trama su un ideale piano inclinato che va verso un inesorabile ed impercettibile inasprimento del dramma, fino al finale enigmatico tutto da interpretare (ma c’è davvero qualcosa da capire? Rimane il terribile sospetto che sia più che altro un divertissement stilistico, per sorprendere e far colpo sullo spettatore).
Ad ogni modo, la qualità del film non è solo nella sua componente visiva, perché affronta a modo suo, in chiave metaforica, argomenti alti come la forza dell’amore – il tono è però troppo dissacrante e surreale per pensare di poter trarre spunti di riflessione degni di nota – ma è anche, più filosoficamente, una riflessione sul tempo e lo spazio, dove le distanze vengono come azzerate grazie ad una ricerca stilistica che pare quasi un tentativo di esplorare il linguaggio cinematografico e sondarne limiti e potenzialità, riuscendo nel tentativo di sbalordire lo spettatore chiamato a decifrarne i messaggi reconditi anche a livello simbolico.

Gabriele Cheli

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