1936, Emilio è il figlio del podestà di un piccolo comune alle porte di Roma e nella sua fervida fantasia, alimentata dalla lettura dei romanzi di Salgari, sogna ad occhi aperti di combattere nella giungla al fianco di Sandokan e delle tigri di Mompracem. La vita sua e della sua famiglia vengono però stravolte dall’arrivo in casa loro di un ras e guerrigliero africano, fatto prigioniero dall’esercito regio durante la Campagna di Etiopia, in pieno corso. Gli ordini dei gerarchi fascisti impongono le massime attenzioni per l’illustre ed esotico ospite (potrebbe essere utile per qualche negoziazione, una volta terminata la guerra) che per una malsana idea del capofamiglia, viene “alloggiato” nella grande gabbia al centro del giardino. Al posto del pavone.
La storia raccontata – liberamente ispirata a Il figlio del podestà, un romanzo parzialmente autobiografico di Nino Longobardi, giornalista e scrittore campano del secolo scorso – è un po’ vera ed un po’ inventata, così come la località di Roccasecca, che esiste davvero ma probabilmente non è la stessa location del film (che si lascia intendere molto più vicina a Roma di quanto non lo sia la vera cittadina che porta questo nome).
Con la stessa duplicità procede la narrazione di questa fiaba sui generis, sospesa tra commedia e dramma, scherzo e serietà, realtà e fantasia, raccontando gli errori di un passato recente, senza dubbio il più brutto nella storia del nostro Paese, con una certa leggerezza ed un occhio di riguardo per il pubblico dei più piccoli, i quali, oltre che dalla simpatia del giovane protagonista, saranno sicuramente conquistati dai numerosi inserti d’animazione con cui vengono raccontate le avventurose fantasie di Emilio, tra giungle, sciabole ed animali feroci.
Il film, presentato in concorso al festival di Torino del 2024, si contraddistingue inoltre per il tono ironico del racconto – che gioca soprattutto sul rovesciamento di ruoli e prospettive tra fascisti e ras (in fondo le cose brutte che dicono di lui, potrebbero e dovrebbero dirlo di se stessi) – e per un certo rigore formale nella costruzione delle inquadrature, con la ricerca (non ossessiva) di geometrie e simmetrie, enfatizzata anche dalla scelta di un formato cinematografico più stretto (forse anche per collegarsi a tecniche produttive più datate?).
L’idea di fondo quindi è decisamente carina e affronta il tema della diversità e dell’intolleranza in tutte le sue sfaccettature, snocciolando in chiave comica una serie di luoghi comuni su stranieri, omosessuali e donne – in tal senso è centrale il personaggio della moglie del podestà, che ambisce ad emanciparsi come artista ma per farlo si presta ai machiavellici ma maldestri stratagemmi del marito. Il tono leggero della sceneggiatura poi, conquista l’attenzione e il cuore del pubblico, ma il suo sviluppo risulta a tratti un po’ frettoloso, con la sensazione che alcune cose cadano nel vuoto o che si saltino passaggi importanti soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione dei rapporti che il silenzioso prigioniero riesce a costruire con alcuni dei personaggi che popolano la tenuta di famiglia del piccolo Emilio.
In fin dei conti, Abraham (così si chiama il ras) risulta quasi essere una funzione narrativa, una sorta di “angelo viaggiatore” che oltre a rappresentare il punto di vista esterno ed obiettivo su un mondo storto e dai valori completamente rovesciati – sicuramente la persona più equilibrata e generosa insieme al bambino – è anche l’elemento agente che porta al cambiamento: le persone evolvono dopo il suo arrivo e si liberano dalla gigantesca sovrastruttura del pensiero dominante dell’epoca, cioè quello fascista, una gabbia esistenziale che nel film aspetta solo di essere scardinata.
Gabriele Cheli
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