L’iraniano Ahmad torna in Francia dopo quattro anni dalla separazione da Marie – di cui è stato il secondo marito – per firmare i documenti relativi al loro divorzio. La donna, infatti, ha intenzione di sposare Samir, con cui ha una relazione da quasi un anno. L’annuncio di questo matrimonio, che non sembra turbare più di tanto Ahmad, uscito ormai da tempo dalla vita della donna, si abbatte invece con violenza su Pauline, la maggiore delle due figlie (che Marie ha avuto dal primo marito), ancora affezionata ad Ahmad e infastidita dalla novità di un terzo uomo nella vita sua e di sua madre. Marie non riesce a comunicare con sua figlia e chiede ad Ahmad di parlarle per capire il perché della sua ostilità nei confronti del nuovo fidanzato. Di confessione in confessione, e di litigio in litigio, emergono segreti e verità che rimettono in discussione i rapporti tra tutti.
Senza raggiungere i livelli del precedente Una separazione, premiato nel 2012 con l’Oscar per il miglior film straniero, l’iraniano Asghar Farhadi consegna un altro ottimo film, una storia di grande intensità servita da una sceneggiatura perfetta e implacabile, serrate scene di dialogo e grandi interpretazioni (la protagonista, Bérénice Bejo – in un ruolo diversissimo da quello in The Artist che l’ha resa nota al grande pubblico – ha vinto il premio come miglior attrice al Festival di Cannes 2013).
Una sapientissima costruzione narrativa conduce lo spettatore sempre più in profondità nello svolgimento della vicenda, rivelando gradualmente le psicologie dei personaggi e i segreti che nascondono. Anche se le scene parlate hanno il sopravvento sulle azioni, si può individuare in ogni dialogo una “azione cinematografica” che spinge la storia in avanti alzando la posta in gioco. Pur non essendolo, infatti, Il passato funziona come un giallo giudiziario, in cui l’arte retorica e le capacità induttive hanno un ruolo fondamentale nello svelamento della verità: l’iraniano Ahmad, secondo marito della donna e assente da quattro anni dalla vita della sua famiglia, riesce a guardare le cose da un punto di vista esterno e a svolgere pertanto – narrativamente – il ruolo del “detective”. La distanza (temporale, geografica e culturale) dal contesto in cui si trova ora a dipanare l’intricata matassa, non gli toglie, certo, né il dolore per la separazione da Marie e dalle sue figlie adottive né la responsabilità per la sofferenza che può infliggere e aver inflitto loro (ciò che Pauline teme di più, a proposito del nuovo fidanzato di sua madre, è che un giorno possa andarsene e lasciarle sole, come ha già visto fare ai suoi primi due mariti).
Nonostante il dolore e la paura, Ahmad sembra un uomo sereno, pacificato con la propria vita e i propri errori. Cerca con insistenza di appianare tutti i conflitti e di impedire che le persone coinvolte nel dramma – che prende forma nel film attraverso diversi colpi di scena – diventino schiave dei segreti che nascondono e delle bugie che dicono. Un’ostinazione, la sua, che in un primo momento sembrerebbe recare agli altri più dolore di quanto già ne provino ma, sulla distanza, si dimostra criterio adeguato perché tutti approdino a una limpida conoscenza di sé e della realtà che vivono (un percorso cui non si sottrae lo stesso Ahmad, costretto a riconoscere i limiti di una sicurezza di mezzi che può essere letta come mancanza di empatia e di un distacco che, se gli permette l’obiettività assoluta, è causa di altre solitudini).
Un film magistrale, che senza mai coinvolgere dinamiche di fede nel trascendente, tocca di fatto temi “implicitamente” religiosi, parlando in maniera lucidissima (e non pessimistica, come hanno scritto alcuni critici, semmai realistica) di senso di colpa, peccato e redenzione. Riuscita è anche la descrizione dei rapporti tra adulti e bambini (i soliti, questi ultimi, incolpevoli spettatori dei madornali errori dei grandi) e tra adulti e adolescenti (la serietà con cui Ahmad incarna il ruolo di padre putativo di Pauline è affascinante e commovente). La pertinace ricerca da parte dell’uomo di come siano andate davvero le cose è intrisa di un senso morale del tutto familiare a una visione della vita che contempla la verità come data, oggettiva e perciò conoscibile. La svolta dell’ultimo atto, con la scoperta di un personaggio fino ad allora in ombra e di azioni che spandono su tutta la storia una luce di speranza, non solo è un pezzo di alta scuola di scrittura ma consegna al film un messaggio che potrebbe riassumersi in una famosa asserzione: “La Verità vi farà liberi”.
Scegliere un film 2014
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