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Il ritratto del Duca


TITOLO ORIGINALE: The Duke
REGISTA: Roger Michell
SCENEGGIATORE: Richard Bean e Clive Coleman
PAESE: Regno Unito
ANNO: 2020
DURATA: 96'
ATTORI: Jim Broadbent, Helen Mirren, Matthew Goode e Fionn Whitehead
SCENE SENSIBILI: nessuna
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Newcastle 1961, Kempton Bunton, tassista sessantenne, inizia una protesta solitaria perché il governo inglese stanzi più fondi per gli anziani e i pensionati possano vedere gratuitamente la tv. Ovviamente la BBC non ci sta e lo persegue, allora la sua incredibile idea è compiere l’unico furto tuttora avvenuto alla National Gallery di Londra: il ritratto del Duca di Wellington, dipinto da Goya. Riconsegnerà il prezioso dipinto se otterrà le richieste sociali che ha fatto. Nello scalpore generale e barcamenandosi fra bugie pubbliche e private nel delicato rapporto con la moglie, Kempton viene scoperto e deve andare a processo, ma questa storia vera, cinquant’anni dopo sarà ancora ricordata.

Lo humor inglese e il racconto sociale intrattengono con intelligenza

Il film di Roger Michell (uscito postumo, data la morte prematura del regista) ha tutti i crismi per intrigare e divertire perché messa in scena, ritmo e sapidità dei dialoghi garantiscono un intrattenimento gustoso e intelligente per tutti gli appassionati del genere, ma anche per un pubblico potenzialmente molto più vasto. Il fatto, poi, che si tratti di una storia vera, pur così eccentrica, motiva a seguirla anche per il suo risvolto sociale ed è interessante pensare che la battaglia, apparentemente così donchisciottesca, del signor Bunton, abbia portato, seppur solo nel 2000, al canone tv gratuito per gli over 75. Bunton è un anziano che non si ripiega nella sua condizione, ma crede di aver ancora voce in capitolo: con le sole armi della sua onesta protesta prima, per strada e poi provando ad accedere ai palazzi del potere. Vuole farsi sentire da chi comanda e di fronte alla loro impermeabilità si trasforma, con una certa incoscienza, in un Robin Hood contemporaneo. Come non innamorarsi di un eroe così fuori dagli schemi e così ingenuo nel suo afflato di giustizia? L’abilità degli sceneggiatori sta nell’aver elaborato un racconto che, volendo presentarsi come una commedia leggera, si regge sulle eccezionali interpretazioni dei due protagonisti e ha i suoi punti di forza nel contrappunto fra l’eccentricità del protagonista e la saggia pacatezza della sua consorte. Uno spaccato famigliare che si innesta con preponderanza sul contesto ambientale. La ricchezza del film sta, però, anche nel tener vivo il sottotesto di denuncia sociale, un genere che da tempo è frequentato con successo dal cinema inglese di registi ormai affermati, uno fra tutti Ken Loach. Il grigiore della cittadina del nord di Newcastle, le difficoltà economiche dei due anziani coniugi, o i lavori saltuari di lui, sono elementi che fanno riflettere, ma vengono sempre gestiti dalla scrittura brillante, evitando di indulgere ad un patetismo che stonerebbe con il mood generale dell’opera.

Quando grandi attori sanno tenere da soli la scena

Nonostante l’apprezzamento dell’intero impianto del film, non si può negare che i premi Oscar Jim Broadbent ad Helen Mirren sono determinanti per la sua riuscita. Essi riescono, grazie ad una perfetta intesa, a rendere magici i loro scambi e a pennellare in poco spazio la bellezza di un rapporto coniugale che si protrae fedelmente negli anni, pur con dissidi e spassosi battibecchi. Commovente, per esempio, è la loro capacità di perdonarsi anche solo con gli sguardi. Quello che, anzi, può essere imputato agli autori è di non aver osato approfondire il risvolto drammatico che i due coniugi vivono, ovvero la perdita della figlia adolescente, che il signor Bunton cerca di colmare e far elaborare alla moglie, con i suoi velleitari racconti inviati (regolarmente invano) alla Bbc. Un dolore profondo che è in fondo il motore della sua ostinazione nella protesta. Dato il talento degli attori, sicuramente avrebbero reso molto bene anche ampliando questa nota malinconica che avrebbe arricchito maggiormente la narrazione, ma forse ne avrebbe troppo spostato l’intento primario che si può gustare nelle scene di dialettica surreale al processo e resta quello di far sorridere con quel sarcasmo british che non teme confronti.

Giovanni Capetta

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