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La tartaruga rossa


TITOLO ORIGINALE: La tortue rouge
REGISTA: Dudok de Wit
SCENEGGIATORE: Pascale Ferran e Michaël Dudok de Wit
PAESE: Francia/Belgio/Giappone
ANNO: 2017
DURATA: 80'
ATTORI: X
SCENE SENSIBILI: per i temi adulti e la tensione emotiva di alcune scene il film è sconsigliato per i più piccoli.
1 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 5

Un uomo scampato a un naufragio finisce su un’isola deserta da cui cerca inutilmente di fuggire, finché una creatura leggendaria non gli insegnerà a vivere in armonia con la natura.

Studio Ghibli si allea con l’Europa

L’avventura del primo film Ghibli realizzato in Europa comincia a Tokyo nove anni fa, quando Miyazaki Hayao e Takahata Isao, con l’intermediazione della Wild Bunch Distribution, decidono di rintracciare il regista di un corto animato (l’ottimo Father and Daughter, premio Oscar nel 2001) e cofinanziare la sua prossima pellicola. Nasce così La Tartaruga Rossa, esordio al lungometraggio dell’olandese Michaël Dudok de Wit, che si ritrova al timone di un’impresa insolita, e di certo stimolante, come può esserlo il lavorare a stretto contatto con uno studio di fama mondiale, capace di creare grandi storie adatte a tutti, ma squisitamente giapponese per sensibilità e metodi produttivi.

Il risultato è un’opera elegante e coraggiosa, che nella sua apparente semplicità intreccia non pochi fili narrativi: il diario di un naufrago alla Robinson Crusoe, la fiaba surreale di una tartaruga in grado di trasformarsi in donna, l’arco di una love story dai contrasti giovanili alla tenerezza della vecchiaia, lo spaccato quotidiano di una famiglia primitiva, il Bildungsroman di un bambino cresciuto tra la terra e il mare. Il tutto (o quasi) animato in 2D, senza dialoghi e con il design pulito di De Wit, a metà strada tra ukiyoe e bande dessinée. Sullo sfondo, una colonna sonora minimale, che alle note sognanti di Laurent Perez Del Mar alterna il rumore del vento, il fruscio del bambù, il fragore della risacca – in equilibrio perfetto tra musica e silenzio.

Se Robinson Crusoe fosse stato giapponese…

La sceneggiatura, supervisionata da Takahata in fase di storyboard e poi scritta a quattro mani con la francese Pascale Ferran, parte da un archetipo universale (il survivor) e lo scandaglia a fondo, illustrando la parabola di un uomo nelle sue fasi ‘macro’ (nascita, sviluppo, riproduzione, senilità, morte) e nei dettagli ‘micro’ (per esempio, la carezza della donna-tartaruga, quando lui si pente di averle fatto del male). Spicca lo scavo psicologico di un personaggio scolpito a tutto tondo, che con le sue emozioni in continuo mutamento accende la simpatia del pubblico e lo trascina in un dramma circolare, stilisticamente sorvegliatissimo (numerose le simmetrie tra i momenti più significativi della storia) e alleggerito da una serie di gag visive (i granchi divenuti animaletti da compagnia).

Il tema della natura è centrale nel discorso degli autori, che in linea con lo spirito nipponico scelgono di descriverne ogni aspetto, dalla pace del tramonto alla furia dello tsunami, e di affidarle un ruolo narrativo: è lei l’antagonista con cui l’eroe si scontra a più riprese, muovendo guerra a tutti i suoi emissari (l’isola, il mare, la tartaruga). Agli occhi di un uomo disperato, l’isola è soltanto una prigione, dove le insidie sono all’ordine del giorno (la caduta nel crepaccio, i fantasmi della solitudine, la distruzione della zattera) e vige la legge della catena alimentare. Questa prospettiva viene capovolta dalla metamorfosi della tartaruga, che donando al protagonista una compagna gli permette di vedere il mondo qual è veramente: una casa in cui abitare assieme.

Un inno alla bellezza del creato e il suo mistero

In bilico tra mitologia e realismo magico, La Tartaruga Rossa è un film sottile, che ha tanto da raccontare e si prende tutto il tempo per farlo, con la chiarezza del cinema muto e una coesione interna molto appagante per lo spettatore. È vero che, dalle sequenze oniriche iniziali, l’atmosfera in cui si svolge la vicenda è fortemente enigmatica, tanto da spingere lo spettatore a domandarsi se non si tratti di un’allucinazione del protagonista. Ma è lo stesso simbolismo della pellicola a metterci in guardia dalle interpretazioni troppo letterali, perché il senso è un altro: far percepire, grazie all’empatia che genera lo storytelling, la bellezza del creato e il suo mistero, risvegliando in chi guarda lo stupore e il rispetto per la vita.

Maria Chiara Oltolini

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