La famiglia Höss rientra a casa da un picnic lungo il fiume. Poche inquadrature, ed ecco lo choc: la loro abitazione confina col muro di cinta di Auschwitz. Ad eccezione del padre Rudolf, SS e comandante del campo, né la moglie Hedwig, né i figli, né lo spettatore vedono alcunché di quanto avviene al di là del filo spinato, fatti salvi i tetti, le torri di guardia e una ciminiera che emette fumo. Ma il rombo, l’indefesso tramestio, urla, spari e latrati fanno da lugubre e persistente colonna sonora alla serena vita degli Höss, deliberatamente noncuranti di quanto avviene a pochi metri dal proprio giardino. Rudolf pianifica stermini coi colleghi nelle stanze di casa. Hedwig s’impossessa di oggetti di valore provenienti dal campo. Ma forse la muraglia di Auschwitz è una diga che scricchiola: forse qualcosa può ancora perforare queste anime impenetrabili.
Ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, a sua volta basato sulla reale vicenda di Rudolf Höss e famiglia, La zona d’interesse, più che raccontare una storia, descrive un sistema: il quotidiano processo di vita degli Höss. Vita in tutto e per tutto ordinaria e anonima: così ordinaria e così anonima da essersi totalmente estraniata dalla realtà circostante. È evidente – lo stesso sceneggiatore e regista Jonathan Glazer non lo nega – il nesso con la celebre tesi di Hannah Arendt sulla banalità del male, secondo la quale a commettere i crimini più atroci non sono gli uomini malvagi, ma quelli banali. Vale a dire persone così meccaniche, così poco abituate a riflettere sul significato e sulle conseguenze delle proprie azioni, da diventare grigi funzionari in grado di attivare una camera a gas con la stessa superficialità con cui schiaccerebbero una zanzara. La genesi del male non sta nella crudeltà, ma nella mediocrità: più che una carenza etica, un’atrofia della ragione.
E tra gli Höss la mediocrità è di casa: qui l’essere umano è svanito, l’inerte incedere di un sistema ne ha preso il posto. A testimoniarlo è anche la messinscena, composta di rigorose inquadrature che incastonano gli attori in severe cornici architettoniche. Pressoché assenti i primi piani: non sono i personaggi (se di «personaggi» si tratta e non di automi) il vero protagonista del film. Perlomeno non quello primario.
C’è chi paragona – non ultimo lo stesso Glazer – il perimetro di casa Höss, in apparenza un’accogliente dimora con giardino in fiore, al recinto di un reality show. Anche se il raffronto non è del tutto calzante, non è fuori luogo: casa Höss è un mondo altro, avulso dall’esterno. E tuttavia è abitato da persone in tutto e per tutto simili a molti di noi, all’uomo comune. Come a dire: chiunque di noi può diventar come loro. E se così fosse – suggerisce il film – il recinto in cui finiremmo alienati, paradossalmente, ci accomunerebbe alle vittime del nostro lager: se oltre il muro si sterminano (anche) i corpi, tra le aiuole degli Höss si annientano le anime. Tra nazista e deportato vige una comunanza di destino: anche il persecutore è prigioniero del suo sistema. Lo è in modo meno truce e sanguinario, ma non meno sinistro.
Tutto ciò basta e avanza a testimoniare quanto La zona d’interesse voglia scomodare i suoi spettatori, evitare che qualcuno abbandoni la sala in tranquillità. Ma Glazer non si accontenta di mettere in guardia dalla miseria in cui vive il nazista medio: sembra voler verificare se, oltre la glaciale spietatezza dell’indifferenza, vi siano tracce di un potenziale disgelo. Difatti, al di là del significato storico del titolo («zona d’interesse» era il nome assegnato al territorio destinato all’allestimento del campo di Auschwitz, abitazione degli Höss inclusa), il sospetto è che l’espressione alluda ad una regione dell’anima, dove la coscienza, per quanto sepolta, resta pur sempre accesa. E indizi di questa silenziosa attività, che i personaggi ignorano tanto quanto la rumorosa industria del lager, sono rintracciabili in diversi punti: ma si tratta di poco più che meri accenni. Il film procede, come si suol dire, per sottrazione: a renderne impegnativa la visione è dunque anche l’invito, rivolto allo spettatore, a colmare i silenzi con un paziente lavoro di interpretazione. A meno che non si conoscano per intero la vicenda e le memorie di Rudolf Höss (sorprendentemente riconvertitosi al cattolicesimo nel dopoguerra, prima dell’esecuzione capitale), a cui Glazer può aver ben attinto e che possono favorire la comprensione. Ma il film in quanto tale richiede un certo scavo.
Non manca tuttavia una sequenza dedicata ad un brano yiddish, composto proprio ad Auschwitz da un ebreo recluso: «Noi che siamo qui imprigionati, siamo vigili come le stelle di notte […]. Anime in fiamme, come l’ardente sole».
«Anime in fiamme»: forse la «zona d’interesse» di cui si sta davvero parlando è proprio questa.
Marco Maderna
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