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Loveless


TITOLO ORIGINALE: Nelyubov
REGISTA: Andrey Zvyagintsev
SCENEGGIATORE: Oleg Negin, Andrey Zvyagintsev
PAESE: Russia, Francia, Belgio, Germania
ANNO: 2016
DURATA: 128'
ATTORI: Mariana Spivak, Alexey Rozin, Matvey Novikov, Marina Vasilyeva, Andris Keishs
SCENE SENSIBILI: scene di sesso esplicite, scene di forte tensione.
1 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 51 vote, average: 4,00 out of 5

Boris e Zhenya sono al capolinea della loro storia matrimoniale; entrambi si stanno rifacendo una vita con un altro partner (Boris aspetta perfino un figlio dalla nuova compagna), la casa è in vendita, le strade pronte a dividersi senza troppi rimpianti. C’è solo un particolare stonato in questa sinfonia della disunione, ed è la scomoda presenza del figlio dodicenne, Alyosha. Nessuno dei due sembra disposto a prendersene cura, ora che finalmente sono pronti a ricominciare da un’altra parte, per cui l’unica soluzione pare essere l’orfanotrofio. Alyosha, ascoltando malauguratamente stralci di un dialogo tra i due, comprende il proprio destino e decide di uscire silenziosamente di scena, socchiudendo la porta senza fare rumore e facendo perdere le sue tracce.

Un dolore che può solo distruggere

Il film si apre con alcune scene che ritraggono un parco alle porte di Mosca, carico di neve e silenzio. Bianco, vuoto e un silenzio assordante caratterizzano le primissime inquadrature, dettagli che non riusciamo a dimenticare nel corso della storia. L’esistenza del piccolo Alyosha rispecchia queste caratteristiche; scialba e insignificante agli occhi dei genitori, vuota di affetti, talmente flebile da non poter essere percepita. Un inconsistente nastro di plastica sventolante, aggrappato senza energia, quasi fortuitamente, ai rami di un albero. A fare da contrasto, nelle scene successive, ci sono gli insulti e le minacce che i due genitori si vomitano addosso reciprocamente, dense di livore ed egoismo. A partire dall’inquietante scomparsa del figlio i due non faranno altro che litigare, scagliarsi addosso le reciproche mancanze e responsabilità. Quasi a voler confermare che il dolore non per forza riunisce, ma laddove i rapporti sono stati spezzati tra accuse e rivendicazioni non c’è possibilità di recupero, e il dolore può solo distruggere ciò che l’egoismo aveva prima incrinato. Nessuna redenzione quindi, nessuna catarsi. I due protagonisti cedono alla spirale dell’odio, non offrendo mai la spalla l’uno all’altra, anche quando ne avrebbero un disperato bisogno. Nella scena più drammatica di tutta la storia, infatti, quando entrambi si trovano all’obitorio, e devono verificare se il corpo celato sotto il telo appartenga o no al figlio, non uno sguardo, un abbraccio, una richiesta di aiuto viene indirizzata dall’uno nei confronti dell’altro. Questa coppia un tempo feconda, capace di mettere al mondo un bambino, si ritrova nel tempo, schiacciata dal peso delle proprie incomprensioni, sterile. Non più in grado di infondere affetto e tenerezza verso l’altro. Tantomeno di offrire il perdono.

Un’esistenza disintegrata e quasi senza valore

Il regista Zvyagintsev ci restituisce una società disintegrata nello spirito e negli affetti, e lo fa con una perizia quasi chirurgica, per cui non c’è inquadratura o dialogo di troppo. Contro questa umanità violata dove nessuno ama davvero nessuno, dove ognuno è solo, in balia del proprio istinto quanto del proprio cellulare (degna di nota l’insistenza con cui ritrae i protagonisti con il telefono in mano) e dove l’esistenza dell’altro non ha valore, dignità, peso specifico, si staglia, implacabile, il giudizio di Zvyagintsev. L’unica eccezione, insieme ad Alyosha, piccolo martire dell’egoismo contemporaneo, è rappresentata dalla squadra di volontari, che si prodigano per il ritrovamento del bambino in modo del tutto disinteressato. Dietro l’anonimato di questi individui si celano gli unici barlumi di sentimenti autentici, che rendono tale l’essere umano, quasi a lasciar intendere che l’uomo di oggi ha pagato l’acquisto della propria individualità con la perdita della propria umanità.

Miriam Farabegoli

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