Una sera d’inverno lo scapolo solitario Seligman raccoglie per strada una donna vittima di un feroce pestaggio. La porta a casa sua, la cura e lei decide di raccontargli, in otto capitoli, la sua storia di ninfomane. Dalla scoperta precoce della propria esuberante sessualità ai molti amanti, passando per le sperimentazioni e l’illusione dell’amore, fino alla perdita della sensibilità e alla ricerca di esperienze pericolose e dolorose. Seligman ascolta con attenzione il racconto, sospeso tra senso di colpa e orgogliosa rivendicazione della propria lussuria…
Cosa esattamente aveva in mente Lars Von Trier con quest’ultima pellicola? Uno sberleffo provocatorio fin dal titolo? Un’operazione cerebrale per cinefili coraggiosissimi? Una pièce brechtiana che fa dell’allontanamento del pubblico una cifra d’interpretazione? O forse un’esplorazione della sessualità umana senza pregiudizi fino alle estreme conseguenze? Una voluta sfida a tutto ciò che possa essere vagamente definito politically correct, o semplicemente un’opera pornografica falsamente nobilitata dall’afflato intellettuale?
Qualunque cosa passasse nella testa del cineasta danese, la visione di Nymphomaniac (divisa in due volumi probabilmente solo per ragioni commerciali e per una durata totale che nella versione uncut dura circa cinque ore e mezza, quattro in quella “censurata”) si rivela piuttosto impegnativa anche per i suoi estimatori e decisamente respingente per il restante pubblico… Il tutto senza offrire una riflessione così profonda e acuta da giustificare lo sforzo.
Al di là delle numerosissime scene di sesso che vedono impegnata la protagonista in una reiterazione che da gioco provocante diventa ben presto un’esecuzione ossessiva e vuota, spersonalizzante e alla fine addirittura autodistruttiva, il problema è che la protagonista Joe è definita praticamente solo dalla sua fame sessuale e questo alla lunga la rende un personaggio assai poco interessante, oltre che per nulla empatico.
L’unica vera forma di sentimento che le vediamo provare è forse l’affetto per il padre appassionato di piante, che le lascia in eredità l’unico vero spazio di meditazione di senso e la cui morte costituisce il dramma più serio della sua vita. Certo è molto più significativo della relazione fallimentare con Jerome (il primo uomo della vita di Joe, destinato a rientrarvi a più riprese attraverso una serie di “casi” che Seligman si ostina a reputare improbabili ma che Joe si ostina a difendere) che serve sostanzialmente solo a demolire il mito dell’amore romantico, che Von Trier considera superato tanto quanto la questione religiosa.
Per altro, a dispetto o forse proprio per sottolineare in modo provocatorio questa convinzione, riempie la sua storia di riferimenti, metafore e analogie teologiche, alcune azzardate, altre pedestri, per lo più comunque moleste anche per un non credente e in definitiva spesso forzate.
La narrazione, divisa in capitoli, piena di citazioni, commenti (anche per mezzo di cartelli sovrapposti, oltre che per voce dell’ascoltatore Seligman) è volutamente straniante. Von Trier si toglie parecchi sassolini dalle scarpe: trasparenti i riferimenti alle accuse subite (per altro fondate) di antisemitismo, ma anche molte tirate contro il politically correct e pure il comune buon senso.
Soprattutto nella prima parte il regista sembra indulgere più che altro in un gioco intellettuale spiazzante ma talora godibile (con le conquiste della giovane Joe paragonate alle tecniche della pesca alla mosca e poi alla musica di Bach); nella seconda parte si precipita nella tragedia, cupissima e priva di speranza, con Joe (che si trasforma dalla poco espressiva Tracy Martin alla dolente Charlotte Gainsbourg) che si rivolge a un “picchiatore” per risvegliare la libido perduta e si dimentica il figlio sul balcone sotto la neve per non perdere la “seduta” (autocitazione dalla precedente pellicola di Von Trier Antichrist). La disperazione per la perdita di ciò che – è evidente – è l’unico centro della sua vita, i reiterati tentativi di porvi rimedio anche rivolgendosi alla perversione, l’impegno, per altro rinnegato, di liberarsi della sua “dipendenza”, il senso di tradimento nel finale quando i suoi due amanti si alleano e la umiliano, dovrebbero in qualche modo commuoverci.
Lo straniamento e la diffidenza accumulata nel frattempo dal pubblico, però, nonostante l’impegno messo dagli attori (vari i nomi di livello, che avrebbero forse potuto impiegare meglio il loro talento), fanno sì che non si riesca mai davvero a lasciarsi coinvolgere i dilemmi e le sofferenze di Joe, né tanto meno dei suoi comprimari.
La verve aggressiva e satirica di Von Trier, dopo essersi sfogata negli anni su ogni possibile idolo, gira ormai a vuoto da un bel po’ e non basta il divertimento per le battute dell’ispirato Stellan Skarsgård a riscattare una visione faticosissima quanto sostanzialmente inutile, il cui finale privo di speranza riesce ad annullare qualunque apertura di credito concessa in precedenza.
Scegliere un film 2014
Tag: 1 stella, Drammatico