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One Life


TITOLO ORIGINALE: One Life
REGISTA: James Hawes
SCENEGGIATORE: Lucinda Coxon e Nick Drake
PAESE: Regno Unito
ANNO: 2023
DURATA: 110'
ATTORI: Anthony Hopkins, Johnny Flynn, Jonathan Pryce, Helena Bonham Carter e Lena Olin
SCENE SENSIBILI: nessuna
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Nel 1938, la Germania di Hitler invade i Sudeti e migliaia di profughi, non solo ebrei, si riversano sulla città di Praga, dove sopravvivono a stento, sotto l’incombente minaccia dell’invasione nazista. A Londra, nel 1987, l’anziano Nicholas Winton non riesce a rimuovere il ricordo di quegli anni drammatici. All’epoca era un agente di cambio che diede vita, nella capitale ceca, alla sezione bambini del Comitato Britannico per i rifugiati. Una corsa contro il tempo per permettere a centinaia di ragazzi di fuggire e raggiungere in treno il Regno Unito presso altrettante famiglie affidatarie. Spronato amorevolmente dalla moglie, Winton si decide a far conoscere un album che documenta il salvataggio di 669 bambini. Quando la nota trasmissione That’s Life della BBC rende pubblica l’impresa del filantropo inglese, molti dei sopravvissuti desiderano incontrarlo.

Il pesante onere di appartenere ad un genere con un precedente indelebile

Impossibile non commentare One life, senza fare riferimento all’affollato panorama di film dedicati al genocidio ebraico e in particolare al capolavoro Schindler’s List che, proprio trent’anni fa, vinse ben sette premi Oscar. Un confronto impari dal punto di vista della qualità cinematografica, per quanto la storia vera di Nicholas Winton non sia meno eroica di quella immortalata da Steven Spielberg. Il protagonista è un giovane che, al di là delle lontane origini ebraiche, si definisce europeo, agnostico e socialista: un eroe qualunque, la cui stessa umanità lo spinge a fotografare i primi piani di quei bambini impauriti e a non rassegnarsi di fronte a nessun ostacolo pur di salvare quante più vite possibili. “Chi salva una vita salva il mondo” gli viene detto (espressione fin quasi abusata) eppure in Winton, ormai anziano, prevale una dolorosa ritrosia a raccontare la sua impresa, quasi non sappia perdonarsi per quelli che non ce l’hanno fatta. Un nuovo tassello del grande mosaico cinematografico che orbita attorno alla Shoah e che se non spicca per originalità e qualità formale, trova, comunque, una sua ragion d’essere come monito storico. Alla luce delle attuali politiche per i rifugiati da parte delle autorità inglesi, criticate per mettere in discussione anche le acquisizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, un film inglese che mette in risalto l’impegno di accoglienza da parte della Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale, appare come un’operazione di memoria assolutamente necessaria.

La fragilità del racconto compensata da un cast ragguardevole

Una sceneggiatura esile che vede agire i nostri senza che il pericolo si concretizzi in antagonisti tangibili. Il protagonista è indomito, deve superare l’iniziale, scettico realismo dei compagni, che presto, però, remano tutti nella stessa direzione. Il dramma è messo in scena, ma non penetra nel profondo e, pur essendo la materia incandescente, la nostra partecipazione ne risente. Anche la regia non offre spunti particolari. Le serie di lasciapassare con le fotografie ravvicinate dei bambini per attrarre l’empatia dello spettatore sono uno strumento che fa già parte della nostra consapevolezza e gli stessi strazianti saluti alla stazione con le mani dei figli che a stento lasciano quelle dei genitori non riescono a scalfire la soglia di una non voluta e incolpevole assuefazione. A compensare queste fragilità le buone interpretazioni di un cast di prim’ordine. Eppure anche il talento indiscusso di Anthony Hopkins, che rende intensa la commozione dell’anziano protagonista nel suo drammatico percorso della memoria, appare a tratti non valorizzato pienamente, come una gemma che non riesca a incastonarsi con l’insieme. Forse in questo contribuisce, per la versione italiana, aver perso nel febbraio scorso, un grande doppiatore, Dario Penne, che ha dato la voce al quasi coetaneo Hopkins nella maggior parte dei suoi successi. Siamo certi che l’altrettanto blasonato Carlo Valli, ci scuserà per questa nota venata di nostalgia.

Giovanni Capetta

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