L’adolescente tedesca Leo (Leona) parte per l’Italia, in cerca del suo sconosciuto padre italiano, di nome Paolo. Vedendosela apparire innanzi come un fulmine a ciel sereno, il tremebondo Paolo, che ora è genitore di una bambina di nome Emilia, sprofonda nell’imbarazzo più completo. Di fronte all’agguerrita Leo non c’è scampo: sua figlia vuole conoscerlo. Soprattutto, vuole giustizia: in che modo Paolo pensa di spiegare il fatto di essersi dileguato?
Malgrado il titolo, Paternal Leave sembra piuttosto un film sul significato della parola «figlio», sulla condizione necessaria per vivere una condizione filiale autentica. Il racconto non sembra innanzitutto preoccupato di profilare la paternità vera, di tracciare una via per rimediare alle insufficienze dei padri – plurale – nominati in corso d’opera. Indipendentemente da quanto un genitore riesca o meno a svolgere la propria funzione, l’obiettivo sembra quello di evidenziare ciò che ad un giovane in crescita non può in ogni caso mancare, se si vuole che la sua maturazione abbia successo. Un elemento che la pellicola individua con esattezza, che è pur sempre un’esperienza di figliolanza, ma che non è strettamente connaturato al contributo specifico che un padre (in quanto genitore, maschio, adulto) ha da offrire.
Tant’è che la storia è implicitamente disposta a perdonare anche i più disastrosi tra i fallimenti paterni (o genitoriali). Non che questi ultimi non richiedano alcuna correzione; né si può sostenere che il Paolo di un tempo, che ha abbandonato la figlia Leo, sia uguale al Paolo di oggi, alle prese con la piccola Emilia. Ma la vera urgenza della pellicola non sembra quella di rispondere alla domanda «Cosa rende padre un padre?», di riparare il malridotto genitore di una figlia in sofferenza. Il solo ed unico danno davvero esiziale per il fiorire di una persona risiede ad un livello di profondità maggiore. Oltre ciò che un padre può donare o far mancare.
Data l’età di Leo, Paternal Leave non è soltanto un film sulla figliolanza, ma più specificamente sulla figliolanza in età adolescenziale. E il discernimento più puntuale il racconto sembra dimostrarlo proprio nello studiare il comportamento di Leo. Un comportamento per metà fatto di recriminazione; di livido, furibondo, impietoso rancore, interamente proteso a reclamare la considerazione e l’accoglienza venute meno. Al contrario dell’altra metà, che, all’occorrenza, non esita a mandare Paolo all’inferno, ad ingiungergli di starsene lontano. Se a ferire Leo è l’assenza di Paolo, è imperativo che questi si faccia vivo. Ma se per caso ad offenderla è la sua presenza, che sparisca al più presto. L’attenzione di Leo è totalmente assorbita dal proprio originario malessere, trasformatosi in un insieme di pretese che ora il mondo è obbligato a rispettare, adeguandosi di conseguenza.
Difatti, con la stessa lucidità con cui la pellicola descrive le sue eclatanti contraddizioni, ne individua anche la radice comune. E la chiave per risolvere l’ingarbugliato, apparentemente incomprensibile, labirinto adolescenziale non è poi diversa dal fattore che viene identificato come indispensabile a qualunque crescita.
Può darsi che, in fin dei conti, Paternal Leave non dica nulla di troppo nuovo né sull’adolescenza, né sull’essere figli; ancor meno sull’essere padri. Ma si tratta comunque di qualcosa che difficilmente si eccede nel ribadire, per di più indicato con non ovvia precisione.
Inoltre, il film non intende descrivere la completa rinascita di padre e figlia, la loro compiuta guarigione, ma soltanto il passo iniziale. Si tratta di una storia affidata in buona parte ai silenzi, per di più immersa in un plumbeo paesaggio invernale, che tale resta fino alla fine. Paternal Leave non vuole approdare allo splendore del rigoglio primaverile: vuole mettersi in ascolto dell’acqua che mormora sotto la neve. Tendere il suo commosso orecchio al primo annuncio del disgelo.
Marco Maderna
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