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The Beautiful Game


TITOLO ORIGINALE: The Beautiful Game
REGISTA: Thea Sharrock
SCENEGGIATORE: Frank Cottrell-Boyce
PAESE: Regno Unito
ANNO: 2024
DURATA: 125'
ATTORI: Bill Nighy, Michael Ward, Valeria Golino, Susan Wokoma, Kit Young, Callum Scott Howells
SCENE SENSIBILI: un'allusione sessuale
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Mal Bradley, allenatore della nazionale inglese dei senzatetto, recluta il promettente calciatore Vinny Walker per volare a Roma e competere alla Homeless World Cup, campionato mondiale dei senzatetto. Ma i giocatori di Mal non sono dei meri clochard: le loro compromesse storie, che includono trascorsi di alcolismo e droga, nonché difficoltà relazionali, sono un’insidia per il funzionamento interno del gruppo. E l’ingresso di Vinny, molto poco disponibile a coinvolgersi con compagni eccentrici e ben più complicati di lui, è un’arma a doppio taglio: se i suoi agili piedi sono di rinforzo alla squadra, la sua riottosità rischia di incancrenirne lo squilibrio.

Un affrettarsi a spiegare il significato…

Fin dai primi minuti, The Beautiful Game chiarifica, specialmente per bocca di Mal, la vera posta in gioco del torneo: non la vittoria, ma l’esser parte di una squadra. L’opportunità che si vuole offrire ai senzatetto, indipendentemente dalle loro effettive doti atletiche, è quella di vivere un’esperienza, se non del tutto sconosciuta, a lungo dimenticata: trovare un posto tra i propri simili.
Ma è una chiarificazione così esplicita ed insistente da tradire un affanno: quello di fornire subito la lezione del racconto, per timore che ne sfugga la profondità di significato. Come a dire: attenzione, quello a cui state per assistere non è una trasmissione sportiva, la semplice cronaca di una competizione, ma un autentico racconto di formazione, con tanto di morale. Da qui, un profluvio di spiegazioni e anticipazioni: il calcio è un «linguaggio universale» che dà voce ai giocatori, ciascuno «con una storia da raccontare»; giocatori che possono così incontrarsi e testimoniare al mondo la «possibilità del cambiamento»; cambiamento reso possibile dal fatto che per «fare dei validi giocatori, ci vogliono valide persone»; veniamo anche informati che le loro vicende personali saranno da «spezzare il cuore». Il tutto con registro entusiastico, quando la trama ha a malapena preso avvio.

…che vanifica il racconto

Ma a che pro raccontare una storia di rivalsa se già il torneo promette di far magie, se il trionfo viene anticipato? E qual è il senso stesso del narrare, se tutto viene preventivamente spiegato? A che scopo evidenziare il riverbero personale e drammatico che può soggiacere ad una gara sportiva, se poi non si lascia fare alla drammaturgia (alla narrativa) il suo lavoro, che è quello di illustrare un percorso, la battaglia di un protagonista in cammino? Il racconto di formazione, subito evocato, viene altrettanto subito vanificato.
Difatti, la pur densa (e talora imprevedibile) trama, che alterna la storia personale di Vinny a quella di Mal e di altri giocatori, sembra avere ben poca utilità: al di là del pericolo di sbrigatività o incompletezza nel trattare un articolato intreccio in appena due ore, a spegnerne il potenziale è il fatto che lo spettatore è chiamato ad immedesimarsi nell’estasi di un proclama, a sventolare un gioioso manifesto, anziché ad identificarsi con una persona, col suo obiettivo e la sua trasformazione.
Se c’è qualcuno che non comprende e non partecipa istantaneamente alla comunione d’anime che pulsa alla Homeless World Cup è proprio Vinny Walker: ma la sua maturazione non ha alcunché da insegnarci. Mentre lui – tanto fenomenale nel campo da gioco quanto incompetente in quello delle relazioni – restava indietro, a noi spettatori veniva già impartito tutto: eravamo già predisposti a farci conquistare (a farci «spezzare il cuore») dal calore di questa singolare comunità calcistica. E in questo la storia di Vinny non ha avuto alcun merito. Mentre lui faticava (più o meno) a riconquistare sé stesso, per noi il traguardo era da sempre a portata di mano.

Qualcosa da custodire, nonostante tutto

Non che gli insegnamenti di The Beautiful Game siano futili: tutt’altro. La saggezza di certe affermazioni, specialmente della sintesi (anche se in parte ripetitiva) che ne vien fatta nel finale, è fuor di dubbio. L’impressione finale è comunque quella di aver visionato non un film, bensì il lungo promo di una (encomiabile) iniziativa di contrasto all’emarginazione. Iniziativa che, se non altro, può essere di ispirazione a molte altre: l’aver mostrato quanto un semplice gioco di squadra possa aprire le porte ad un recupero ha il suo pregio, dopotutto.

Marco Maderna

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