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The Brutalist


TITOLO ORIGINALE: The Brutalist
REGISTA: Brady Corbet
SCENEGGIATORE: Brady Corbet e Mona Fastvold
PAESE: USA
ANNO: 2024
DURATA: 215'
ATTORI: Adrien Brody, Guy Pearce, Felicity Jones, Joe Alwyn, Stacy Martin, Raffey Cassidy
SCENE SENSIBILI: alcune sequenze a contenuto sessuale e di nudo; una sequenza di violenza sessuale; uso di droga.
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Sfuggito al campo di Buchenwald, l’ebreo ungherese László Tóth, (immaginario) architetto della corrente brutalista, approda negli Stati Uniti, in attesa di ricongiungersi alla moglie Erszébet. Il suo talento viene intercettato dal magnate Harrison Van Buren, che gli commissiona il progetto di un grandioso centro polifunzionale. Ma László ha conti in sospeso col suo passato. E Van Buren nasconde qualcosa.

 

L’uomo è la sua cattedrale

La magniloquenza della colonna sonora e di certe immagini d’apertura può sembrare l’inaugurazione di un’epica: di un racconto che, attraverso la storia di László, coinvolga quella di un intero popolo. Non è così: nel descrivere The Brutalist, si potrebbe adottare «monumentale intimità» come formula. Il centro polifunzionale che László accetta di erigere è l’equivalente simbolico di una cattedrale, grazie alla quale gli è possibile riedificare sé stesso: ed è alla sua cattedrale interiore che The Brutalist è dedicato. Meticolosamente solenne fino al minuto 215 – con intervallo di 15 minuti incorporato nel montaggio –, il film vuole unicamente celebrare l’anima di László Tóth. Non a caso, alle cornici grandiose si alternano lunghi, meditabondi e analitici dettagli o primi piani; alla potenza sinfonica di certi brani, i delicati rintocchi di altri.

Ciò significa che la storia non procede in base ai tempi dell’azione, ma a quelli (dilatati) della vita interiore. E pur senza smarrirsi in più o meno inconcludenti elucubrazioni o in stravaganti simbologie (come spesso accade a racconti simili), The Brutalist richiede un pubblico paziente e disposto a decodificarne il sottotesto, poiché molto di László è affidato al silenzio.

 

Vivere è sconfiggere un trauma

Silenzio ingombrante, di cui lo stesso Brady Corbet (regista e co-sceneggiatore) offre una valida lettura: se la vita di un uomo consiste nella cattedrale che ha da costruire, quest’ultima coincide a sua volta con la vittoria sul proprio trauma. Negli inconfessati retropensieri di László alberga la Shoah: se ne deduce che il significato dei suoi edifici sia – come testimonia la seconda sequenza dell’intero film – l’anelito a risalire alla luce, a riemergere dalle tenebre in cui è sprofondato. Tenebre dalle devastanti conseguenze, non ultimo il diabolico divario che s’insinua nel suo rapporto con Erszébet, oltre che con sé stesso.

Non solo. Anche l’America che lo accoglie ha un segreto da nascondere: un dissimulato ma perfido antisemitismo, meno efferato di quello nazista, ma – stante il film – non meno velenoso. Ma tanto lo strazio delle vittime quanto la ferocia altrui risalgono alla superficie di rado. Il che vale anche per la via via più esplicita accusa che l’americano Corbet rivolge alla sua stessa nazione: quella di non essere affatto disposta ad offrire a chiunque l’opportunità di un’esistenza nuova. Anzi: nessun anticorpo le impedisce di infierire su chi ha già sofferto, perfino di protrarre – cosciente o meno – l’opera di uno Hitler.

 

Liberi davvero

Vera o falsa che sia questa denuncia, The Brutalist autorizza a credere che la sua non sia la tipica storia di un Sogno americano: nello specifico, quella di un ebreo che reclama quel Sogno anche per sé. Semmai, la Terra Promessa di cui László è in cerca sembra in competizione con l’America. Difatti, tra le eloquenti immagini d’esordio, vi è quella di una Statua della Libertà rovesciata, preceduta dalla voce di Erszébet: «Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo». Non solo il mero emigrare in terra nuova non basta a proclamarsi liberi (la libertà è un duello col proprio fantasma interiore): il punto è che gli Stati Uniti, della libertà, potrebbero non sapere nulla.

Se così fosse, la personalissima (filoeuropea) cultura cinematografica di Corbet, originale quanto aspira ad esserlo il suo stile, ne farebbe una voce curiosamente fuori dal coro. Ma tanto è evidente la sua passione nel comporre l’opera, quanto il risultato rischia di farsi apprezzare da pochi. Non si può infatti non domandarsi se al suo messaggio non convenisse scommettere su un esplicito contrasto tra László e i suoi avversari, anziché occultare la ragione stessa del loro (sotterraneo) conflitto. Investire dunque nella trama, così da aprire il suo scrigno di poesia e la sua riflessione a tutti, senza nulla togliere alla suggestiva caccia – già in corso – ai suoi film d’ispirazione e alle interpretazioni meta-cinematografiche.

In questo modo, chissà quali splendide cattedrali Brady Corbet riuscirà ad innalzare.

Marco Maderna

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