In un’America orfana degli Avengers, la CIA cerca un nuovo eroe che difenda gli Stati Uniti e il mondo intero dalle minacce interplanetarie. Dopo vari tentativi finiti male, un ragazzo sopravvive agli esperimenti per la creazione di un nuovo superuomo: Sentry… che presto non risponde più ai comandi. A provare a fermarlo, un insolito gruppo di antieroi.
“Supereroi con superproblemi”. Questo era il mantra della primissima Marvel, quella degli Stan Lee e degli Steve Ditko, la “Casa delle Idee” che teneva incollati milioni di ragazzini ai fumetti. Uno slogan che ha avvicinato i supereroi alla gente che sognava di fare la differenza indossando un mantello o una maschera, senza distinzioni di razza o sesso, seguendo e a volte anticipando le conquiste sociali della Storia.
È con questo semplice ma efficace ritorno alle origini che il Marvel Cinematic Universe ha deciso di ripartire dopo non aver concluso la saga del multiverso, sfortunata al botteghino e a livello produttivo, soprattutto per i problemi legali di Jonathan Majors, l’interprete del supercattivo Kang contro cui avrebbero combattuto gli eroi presentati nei vari film della saga.
I Thunderbolts non sono nemmeno eroi: sono mercenari, ex soldati e persino ex criminali. Gente che ha sbagliato, che ha perso e che deve affrontare ogni giorno il confronto con il vuoto, dentro e fuori di loro. Quel vuoto in cui cade anche l’antagonista Sentry, trascinando con sé tutta Manhattan…
Per questo i Thunderbolts sono eroi con l’asterisco, come anche suggerito dal titolo di uscita del film, anche se il vero motivo è una strategia di marketing di cui non parliamo, perché rivela il finale del film… Eroi che (finalmente) non devono più fronteggiare sfide provenienti da altri pianeti o da universi paralleli: devono “solo” salvare la loro città e i suoi abitanti. Una posta in gioco forse più piccola, ma certo più umana.
Claudio F. Benedetti
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