Il chitarrista rock Bruno, supponente e vanitoso, lascia furibondo la propria band, condannando sé stesso al fallimento. Tempo dopo, sabota un concerto dei suoi ex-compagni, provocando un involontario incendio. È il suo biglietto per la galera: ma qui, contro ogni previsione, gli è offerta l’opportunità di allestire un nuovo complesso, composto di detenuti. Sarà la ripartenza per tutti?
In fin dei conti, si tratta di questo. Si può ben sostenere che Tutta colpa del rock tracci una vera e propria storia fintanto che osserviamo Bruno iniziare una nuova pagina di vita nell’ignoto mondo dietro le sbarre. Dopodiché è un susseguirsi di singolari incontri con soggetti perlopiù eccentrici (il compagno di cella, il secondino, la direttrice del carcere). Ciascuno manifesta a suo modo quella che sembra una generalizzata crisi di nervi, una malcelata esasperazione, che sia dovuta ai muri entro cui vivono, ai trascorsi dei detenuti (gli stessi trascorsi che li hanno spinti al crimine) o all’ansia di fare carriera (la direttrice). Un bislacco e sinistro paesaggio umano, che il protagonista osserva confuso e allarmato.
E le singole sequenze riescono anche a divertire: ma l’insospettata creazione del complesso rock è una vicenda che sfuma nel nulla. Non perché non le venga dedicato del tempo: ma che l’iniziativa abbia il beneficio, come si vuol far intendere, di far ripartire vite al capolinea, è appena accennato. Non si assiste ad alcuna rinascita di fatto: il Bruno che conosciamo alla fine non è granché diverso da quello di sempre, se non in uno dei suoi due macroscopici limiti (oltre che tronfio chitarrista, è anche un pessimo padre). Ma se e quanto questa maturazione sia merito della sua nuova esperienza musicale è opinabile.
Né l’esperienza in questione innesca chissà quale guarigione nel resto della band: tutto ciò che ha da offrire è uno sfogo, un travaso di rabbia repressa. E il tutto in uno schiocco di dita: basta che uno del gruppo sveli di avere abbozzato una canzone sul suo taccuino, ed ecco che Bruno e compagni trovano l’uno il travolgente tormentone che ha sempre sognato, gli altri le parole per sentire divampare la propria libertà interiore. Se è un’esperienza di riscatto, lo è solo a parole. I rapporti interni al gruppo, ammesso che crescano, crescono dal nulla: non c’è alcuna ragione per cui questi cuori debbano battere all’unisono.
Una magia istantanea, dunque: e se il racconto non finisce qui, è solo perché quel che vuole davvero trattare riguarda il rapporto tra Bruno e la figlioletta che lo aspetta a casa. In ogni caso, l’intero film è di fatto una fiaba: se non fosse che raccontare di condannati che rifioriscono è incompatibile col disinteresse per qualsiasi verosimiglianza negli eventi. Per giunta, anche quando si tratta di Bruno e famiglia, la fiaba si risolve nel puro escapismo: e sull’utilità dell’escapismo – altra cosa sono il legittimo divertimento o il generico ricorso alla fantasia – ci sarebbe da discutere.
A far sospettare che il film non abbia nessun autentico messaggio è anche la canzone del miracoloso risveglio, il coniglio estratto dal cilindro: a sottoporla a tutti è il personaggio di K-Bone, interpretato dal cantante Naska, cui il brano appartiene anche nella realtà. Il film lo propone più volte, cercando sintesi nelle sue parole (e/o premurandosi di promuoverlo): si tratta né più né meno che di un inno all’indomabilità della rabbia, all’insistenza e alla resistenza. Insistenza per cosa? Resistenza a cosa? Non si sa. Del resto, troppo poco conosciamo della storia dei membri della band: in cosa consista la loro appassionata rivalsa è cosa ignota.
E pensare che il testo viene da tutti approvato in sostituzione di un altro, inizialmente proposto da Bruno, in cui non si faceva altro che ripetere la parola «insisto»: ma la canzone di Naska non precisa granché. Il colmo è che della vaghezza del brano (titolo: Nato nel posto sbagliato) ci si può rendere conto solo leggendolo: la pellicola è di così modesta fattura che il cattivo sonoro – non proprio un dettaglio, per un film musicale… – non consente di distinguere le parole.
Per un motivo o per l’altro, il film non approda a nulla: soltanto una buona dose di simpatico umorismo e un confuso invito a tornare alla vita (o a fuggire lontano?) in nome di una gagliarda resistenza. Tanto basta a rinascere: urlare la propria furia e proclamarsi pronti ad insistere.
Marco Maderna
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