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Unicorni


TITOLO ORIGINALE: Unicorni
REGISTA: Michela Andreozzi
SCENEGGIATORE: Alessia Crocini, Michela Andreozzi, Tommaso Triolo
PAESE: Italia, Spagna
ANNO: 2025
DURATA: 105'
ATTORI: Edoardo Pesce, Valentina Lodovini, Daniele Scardini, Michela Andreozzi, Lino Musella, Donatella Finocchiaro
SCENE SENSIBILI: occasionale turpiloquio
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Lucio ed Elena sono genitori di Blu, un maschietto di nove anni che porta capelli lunghissimi e ama abbigliarsi da femmina. In occasione di una recita scolastica, Blu dichiara di voler interpretare la sirenetta. Mamma e papà si rivolgono allora a Genitori Unicorni, associazione dedicata a coppie alle prese con figli transgender.

 

Umorismo o veleno?

Tutto ha inizio ad una tavola imbandita in casa di Lucio ed Elena: un consesso multietnico, multireligioso e arcobaleno, con menù differenziato per ogni ospite, vegani compresi. Un raduno che ha il sapore di un esperimento sociale, l’applicazione di un protocollo di serena convivenza. A rovinare tutto ci pensa il reazionario di turno: all’inizio, i commensali reagiscono sportivamente, come se simili contrasti fossero ormai accettati quale parte integrante del loro rapporto. Ma poi restano offesi. Tanto il pranzo sembra l’artificiosa osservanza di un galateo, quanto le parole del guastafeste sono così caricaturali e preconfezionate da sembrare la lettura di un prontuario. Ciascun personaggio è inserito in uno schema politico di comodo. A tratti serio, a tratti faceto.

Il tema del transgenderismo è infatti parte di una ben più vasta collisione tra due concezioni dell’uomo, della storia e del mondo. E anche se si accusa la supponente “reazione” di credersi migliore degli altri, il film non giova alla causa di nessuno: più che una trama, Unicorni offre infatti un’ininterrotta (e dispersiva) esposizione di sistemi di pensiero rivali. La presunzione di avere la verità in tasca e i complessi di superiorità sono, nei fatti, variamente distribuiti. A volte, il film sembra sorriderne, chiamandosi fuori dagli schieramenti: eppure, i suoi 105 minuti sono saturi di risentimento.

 

Una tesi da far vincere

E forse non poteva essere altrimenti: difatti, lo sforzo di rendere lo spettatore partecipe di timori e tremori di chi è di fronte a figli con disforia (o casi affini) è vanificato dal fatto che, comunque, Unicorni non ha un’esperienza da raccontare, ma una tesi da far vincere.

Quale? Che il sesso biologico non ha a che fare con quello che «sento e so di essere». O che «quello che sono non condiziona quello che desidero». Le premesse di queste ed altre affermazioni sono supposte come evidenti: così evidenti che è impossibile non indispettirsi quando ci si imbatte in una presa di posizione opposta. Per essere agli antipodi, non si può che essere deliberatamente ottusi.

Ma cosa indentiamo con «sento e so di essere»? Quale «sentire», in mezzo al grande magma dell’interiorità, dovremmo riconoscere come testimone del nostro io autentico? Quale «sapere» può essere definito tale, senza essere confuso col mero immaginare, fantasticare, ipotizzare, presumere? È chiaro che, là dove altri insisterebbero sull’impossibilità di aggirare il dato materiale (biologico), Unicorni sostiene invece l’inesorabilità del desiderio, che di tali dati può anche fare a meno (se non addirittura combatterli).

Come se ne esce? In che rapporto stanno desiderare ed essere, vita interiore e mondo esteriore? Chi ha la precedenza? Qual è la chiave di accesso alla verità di sé? Senza chiarire questi ed altri presupposti, qualunque intesa è impossibile.

 

Per il bene dei transgender?

E il chiarimento non può che emergere nei passi dell’esperienza vissuta, che Unicorni sembra ansioso di saltare a piè pari. È l’impressione che si ha, più che di fronte al protagonista primario (Lucio), a sua moglie Elena, la più determinata a cercare consiglio per il figlio. Ma il suo sembra il salto diretto da un inconfessato e confuso spavento all’affidamento all’esperto, nello specifico la psicologa di Genitori unicorni. Al di là del fatto che quest’ultima può indebitamente sembrare la portavoce dell’intera categoria (non lo è), il punto è che l’intera storia, in fondo, sembra in affannosa ricerca di risposte pronte, di un sistema teorico che impedisca alle burrascose acque dell’esperienza di tracimare.

O di un sentimento granitico come quello del piccolo Blu, limpido angioletto che irradia la propria saggezza sugli adulti attorno. Sì, perché il genitore è descritto come colui che deve soltanto prendere atto delle disposizioni d’animo del figlio, fino a scoprirsi suo ammaliato discepolo.

Forse qui non si vuole davvero fare un cammino di scoperta dell’identità umana, sessuale e non: si è solo in cerca di un incantesimo risolutore. Se è così, anche quando ci sembrerà di occuparci del bene dei minori transgender, in realtà staremo solo parlando di fantasiosi unicorni.

 

 

Marco Maderna

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